Con la fine dell’anno 2019, ha chiuso lo storico panificio dei Mirri, il primo di Tursi. Altro segno dei decadenti tempi attuali della comunità tursitana. Anche l’ente locale è ormai declassato a comune sotto i cinquemila abitanti. Sono diversi gli esercizi commerciali chiusi nell’anno appena trascorso, quasi tutti perché i titolari, senza eredi artigianali o professionali, hanno optato per il pensionamento, se può consolare. Il “Panificio Moderno di Mirri Ferdinando”, così l’intestazione da sempre, aveva iniziato l’attività il 10 marzo del 1950, il primo “forno” aperto al pubblico del paese, allora nella parte bassa e periferica dell’abitato, poi ritrovatosi comunque nella centralissima Via Roma, al numero 148.
La famiglia Mirri era originaria dell’Emilia Romagna. Ferdinando Mirri, nonno omonimo dell’intestatario, arrivò a Tursi da Imola, verso la fine del XIX sec., molto probabilmente tra il 1894/95, per sovrintendere ai lavori di costruzione del primo cimitero comunale, dopo l’abolizione delle fosse carnarie. Quindi, si innamorò della rotondellese Vittoria Battafarano e dal loro matrimonio nacquero Paolina, che morì vittima della terribile epidemia nota come “la spagnola”, ed Ettore (Tursi, 1887 – USA, 1928, forse, 41 anni), che tentò gli studi a Bologna, ma presto ritornò a Tursi, dove sposò la novasirese Filomena Salerno, La coppia ebbe tre figli: Ferdinando, Umberto e Giovanni. Morì poco più che quarantenne negli Stati Uniti d’America, dove era emigrato, in circostanze sconosciute.
Le figlie Emma e Ninetta così descrivono il loro papà, l’intraprendente primogenito Ferdinando Mirri (Tursi, 15/3/1909 – 04/04/1982, 73 anni): “Voleva fare qualcosa di nuovo e di diverso, non ancora tentato, era portatore di idee innovative e non si accontentava neppure di lavorare solo la terra, perciò, mancando il forno artigianale, decise di farlo”. Coerentemente con la sua filosofia di vita, dopo il matrimonio e l’apertura del primo forno del paese (poi verrà il mulino e il forno di Vinciguerra – Di Giura), divenne anche il primo titolare di un’autolinea, effettuando con il pullman il servizio di linea Tursi-Policoro-Valsinni-Colobraro, fino al 1957, successivamente praticò l’autonoleggio per parecchi anni, fino ai primi anni Settanta.
Il 10 febbraio 1938, Ferdinando aveva sposato Carmela Lapolla (Tursi, 30/01/1915-27/12/1987, 72 anni). Lei non aveva esperienza, ma in pochi giorni imparò, da un coadiuvante fornaio, a gestire concretamente le fasi di lavorazione, e lo fece nel migliore dei modi, pur continuando ad accudire la casa, che era ubicata proprio al piano di sopra del panificio, assieme ai sei figli, tutti minori: Filomena (1939), trasferitasi a Matera, dal 1970, dopo il matrimonio, casalinga; Ettore (1942), in pensione, professore dell’Ipsia prima a Tursi e poi a Policoro, vive a Montalbano Jonico con la famiglia; Giovanna (1944), che ha seguito le orme materne, dal 1955 in poi, fino a diventare proprietaria del forno, con la voltura del 1975; Antonietta (1947), maestra di scuola dell’Infanzia ed Elementare, in pensione e vedova; Emma (1949), pensionata, docente di Italiano della locale Scuola Media, tra le prime in assoluto a laurearsi con una tesi su Tursi, Origini e vicende storiche di Pandosia-Anglona, nota per la sua vita appartata, inappuntabile e riservata; Pietro (1952), sposato, vive a Bologna, dove lavora.
Giannina è entrata nel forno a undici anni e ha trascorso e maturato tutta la sua vita all’interno, per 64 lunghi anni, sapendo essere da giovanissima un punto di riferimento imprescindibile delle varie fasi del processo di panificazione. Certamente è stata aiutata anche dalle sorelle, soprattutto da Filomena poi da Emma, che adesso, con l’altra sorella Ninetta, le riconoscono con parole affettuose e tenere tutto l’onore e la dignità che merita l’assoluta dedizione e l’incrollabile attaccamento a una scelta di vita lavorativa. Proprio come familiare, lavoratrice e donna, lei è stata capace di giganteschi e duraturi sacrifici e di rinunce pure radicali, come usava nei tempi andati, ma certamente non ai nostri giorni. Privazioni, impegno e carico di lavoro l’hanno segnata per sempre nel fisico, fino curvarne l’attuale, doloroso e lento portamento.
Il forno era a legna e tale è rimasto per 55 anni, fino al 2005, quando fu cambiato a metano, ma solo per le condizioni di salute di Giannina. Lavorare nel forno, per fare il pane quotidiano, non è mai facile per nessuno, perché si fa tanta fatica e, con una turnazione atipica, si altera quasi il rapporto con il tempo giorno/notte e anche con le stagioni. Si andava a letto presto la sera e, verso le ore tre della notte, si iniziava a preparare, ordinare e sistemare il pane in dettaglio, con la dosatura degli ingredienti, l’impastatura, la lievitazione, passando poi alla cottura e alla vendita nelle ore del mattino e oltre; si smetteva di faticare verso le ore 15 (negli ultimi anni l’avvio è stato posticipato e il termine anticipato, rispettivamente di un’ora).
Il servizio della produzione del pane andava garantito sempre e comunque, tranne le domeniche e le solenni festività, con l’aggiunta soltanto della festa della Madonna di Anglona, ma giammai erano consentite altre chiusure, allora non si usava neppure andare in ferie, mai. Un forno atipico, non tanto perché consentiva alle persone di infornare il proprio pane, preparato a casa loro, quanto per aver dato la possibilità ad altre donne del centro storico (le signore Vozzi e Padula su tutte) di preparare la pasta, cuocere i pani e poi andarselo a vendere nei rioni san Michele e San Filippo N., una vera attività per conto terzi. Le persone portavano il grano, che occorreva lavare, rimetterlo nei sacchi e portarlo al vicino mulino che poi trasformava in farina. Nella stessa via Roma, poco distante, era collocato il mulino di Bilotta-Ragazzo (nel locale dell’attuale pasticceria “Eden” di Pipino), con il socio tursitano Matteo Ragazzo, mentre ai lati svolgevano l’attività due fabbri (in uno dei locali adesso c’è la pizzeria “Il Capriccio” di Bascetta). Con il sistema dei buoni, equivalenti al peso del grano fornito, si riceveva il corrispettivo pattuito del pane, in produzione da tre o da due chilogrammi; poi sempre più quello del peso di un chilo, che si iniziò a produrre soltanto dagli inizi degli anni Ottanta; il mezzo chilo fu venduto sostanzialmente dal Duemila, magari pure tagliato già a fette, come si usa oggi. Si lavorava molto, anche quattro quintali di pane al giorno, tuttavia, in settant’anni il consumo si è ridotto della metà circa. Si mangiava moltissimo pane a quel tempo, nonostante ci fosse la consuetudine di costruire il forno in pietra o a mattoni dentro e fuori delle abitazioni, oltre che nelle “caselle” di campagna, perché ci si alimentava soprattutto di pane (con l’olio, il pomodoro, il peperone, nel latte, ovunque e con qualsiasi cosa).
La popolazione era in crescita, arrivò il benessere, le condizioni di vita migliorarono, le famiglie erano numerose e Tursi era frequentato anche da molti forestieri. Parecchi erano operai erano al seguito di imprese, ma soprattutto e di frequente venivano i boscaioli da Bari per disboscare la ricca vegetazione tra Tursi e Colobraro, al fine di ottenerne legna da ardere e anche carbonella. Come hanno sempre saputo, riconosciuto e apprezzato in tanti, quello dei Mirri era un pane davvero speciale, di altissima qualità, che resisteva anche una settimana senza mai ammuffire, perché fatto con il “lievito madre”, preparato la sera e solo al mattino distinto nei vari impasti. Tre le infornate, in una sola camera di cottura, ma dal 1982 il forno è stato cambiato, con due camere di cottura, per abbreviare i tempi di lavorazione. Il panificio produceva e forniva anche biscotti con il finocchietto, a Pasqua i taralli con le uova, le ciambelle (u’ piccillete e a’ pitte) e le focacce, mentre le friselle furono introdotte nei primi anni Ottanta.
Davvero inevitabile la chiusura? Emma e Ninetta, accennano a un sorriso già nostalgico: “In fondo, anche se noi ci siamo riconosciuti con orgoglio nello sforzo profuso, adesso siamo tutti in pensione e con una certa età. In verità, abbiamo rispettato la volontà di Giannina, che era quella di concludere il ciclo, definitivamente. Pur ammettendo di continuare, bisogna prendere atto che non si sono create le condizioni giuste sia in ambito familiare che nella formazione di personale esterno, italiano o immigrato che fosse. Dove andremo noi adesso a comprare il pane? Semplice, finché le condizioni fisiche ce lo consentiranno, continueremo a farcelo noi, ma solo per il nostro fabbisogno quotidiano”.
Salvatore Verde
A Tursi restano in attività tre ottimi fornai: il Panificio Santamaria (via Italia, 8/10), quello di Antonio Suriano (viale S. Anna, 17) e di Giuseppe Cafaro (via E. Lauria, nel rione Santiquaranta). Sono panifici che garantiscono la produzione completa del pane e di altri prodotti, con la vendita diretta al pubblico. (s.v.)