LA VITA DEGNA DI IPPOLITA BITONTE, DETTA POPA (1635/40? – 1733),
VEDOVA DELL’AVV. DON CAMILLO BRANCALASSO (1610/15? – 1670/73)
Indice
Genealogia delle famiglie Brancalasso e Bitonte
Una donna sola al comando
Don Camillo Brancalasso, avvocato, fondatore della chiesa Madonna Le Grazie
Capitali di alcuni pii benefattori della cappella Santa Maria Le Grazie
I capitolo matrimoniali di Don Camillo Brancalasso e Ippolita Bitonte
Don Francesco Antonio Brancalasso, primo figlio del primo matrimonio di Don Camillo con Elionora Leonardis
Come morì il sacerdote Don Giuseppe Milano, tutore di Filippo Brancalasso, secondo figlio del primo matrimonio di Don Camillo
Primo figlio di Ippolita Bitonte e di Don Camillo, Pomponio Brancalassi sposa Geronima Manzi
Dottor Tomaso Brancalassi, figlio del Dottor Don Pomponio Brancalassi e Donna Geronima Manzi, nipote di Popa Bitonte
Don Gio: Andrea Brancalassi, Arciprete della chiesa Cattedrale di Tursi, secondo figlio di Ippolita Bitonte e don Camillo
Vittoria e Grazia Brancalasso, le sorelle di don Camillo
Elenco dei beni ereditati dai Brancalasso da Ippolita Bitonte
LA TERRA DI IPPOLITA BITONTE: NOCARA NEI MITI
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Ippolita Bitonte, tursitana di adozione ma calabrese della Terra di Nocara, è stata una donna di rara tempra e carattere e dalla vita straordinaria, con un cuore grande e un’anima gentile, sia come madre amorevole che come accorta amministratrice dei beni di famiglia. Essa risplende per la integrità della sua esistenza, adoperandosi per la costruzione e la dotazione futura della chiesetta della Madonna delle Grazie, tra le opere di bene realizzate, tutte costantemente ispirate dalla sua riconosciuta religiosità, fino all’ultimo ai limiti della “santità”. Sicuramente è anche la persona più importante nella genealogia dei Brancalasso e nella non ristretta società nobiliare del suo tempo, con i protagonisti tutti al maschile. E non bisogna neppure minimizzare il dato anagrafico, perché potrà essere ricordata come la donna più longeva della storia di Tursi, almeno fino al XIX secolo, per quanto è dato avere conferma diretta e incrociata dai documenti a noi pervenuti. Nata con tutta probabilità tra il 1635 e il 1640, la Signora Ippolita, comunemente chiamata Popa, è deceduta agli inizi di gennaio del 1733, tanto che nei riferimenti orali e scritti, riportati dai suoi contemporanei, la si indica sempre con una età compresa tra i 94 e 96 anni. E questa durata comunque centenaria, non soltanto per i secoli XVII-XVIII, appare ed è più che eccezionale, anzi ha quasi del miracoloso, considerando la difficoltà sempre insita nei parti e il pericolo costante e incombente delle malattie, delle infezioni e delle violenze, ma soprattutto se rapportata alla durata della vita media, nel caso all’incirca raddoppiata. Insomma, è una delle rarissime figure femminili (il numero non raggiunge le dita di una mano) che emergono nelle vicende tursitane, della quale sopravvivono testimonianze abbastanza precise, con riverberi pure nel più ampio territorio calabro-lucano.
Una donna sola al comando ©
Ippolita arriva a Tursi quale giovane sposa di un nobile, avvocato e vedovo, che ha quasi il doppio dei suoi anni ed è alle seconde nozze, quindi diventa madre di quattro figli, due i suoi, e dopo appena un quinquennio di matrimonio il marito muore e non si risposa più, nonostante le insistite sollecitazioni di importanti proposte, pur essendo appena ventiseienne circa, bella e ricca, né pensa di andare via dalla città. La sua matura decisione di rimanere è quasi una scelta controcorrente, sia rispetto a coloro che in situazioni simili se ne ripartirono per il paese di origine sia considerando i tanti tursitani che per scelta si allontanarono definitivamente dal paese natale, per non farvi più ritorno (e questo è accaduto fino ad anni recenti, pur prescindendo dal fenomeno dell’emigrazione del XIX-XX secolo). Popa vive a Tursi per settantacinque anni circa e rivela tutto il suo indiscusso valore, con il prestigio e le doti di garbo, onestà e moralità, ma anche di umiltà, maturità e saggezza, oltre che di equilibrio e lungimiranza. Già in vita, era circondata dall’ampio affetto popolare, segno di una comprensione, vicinanza e amore che aveva saputo donare trasversalmente a tutto l’ambiente, e tanto più alla morte si elevò intorno a lei un alone di bontà assoluta, avvalorata dalla pubblica stima dell’autorevole vescovo della diocesi. Che era mons. Ettore del Quarto o Quarti (28 novembre 1721-17 novembre 1734, poi a Caserta), patrizio lombardo-milanese di Belgioioso, centro non lontano da Pavia. Fu prelato tra i maggiori della storia della diocesi di Anglona e Tursi, nella quale erano inclusi anche parecchi comuni della Calabria: Alessandria del Carretto, Amendolara, Canna, Castroregio (e Farneta), Montegiordano, Nocara, Oriolo, Rocca Imperiale, Roseto Capo Spulico (assetto acclarato nel tempo da mons. Giovanni Antonio Scozio, nella prima metà del 1500, e da mons. Matteo Cosentino, nella seconda metà del 1600). Il vescovo Quarti fece ampliare la sagrestia e costruire l’altare maggiore della cattedrale, tenne un Sinodo e fu Legato Pontificio al monastero del Sagittario (XII sec.) di Chiaromonte, per il ripristino della disciplina. Ebbene, “l’illustrissimo mons. Quarti ne volse un poco della sua camisia stimandola per santa”, mentre i biografi di famiglia annotarono che ella “diceva l’officio del nome di Maria in ogni giorno, e qualche lezione del Padre Rodriguez ed in continui orazioni digiuni e mortificazioni”.
Genealogia delle famiglie Brancalasso e Bitonte ©
Figlia di Don Pomponio Bitonte (1618? – 1670/73), di Nocara, e della Signora Fulvia Planca /Planco, di Oriolo, la ventenne Ippolita Bitonte, detta Popa, sposò nel mese di luglio del 1666 il cinquantenne avvocato Don Camillo Brancalasso (1610/15? – 1670/73), vedovo e padre di due figli, Francescantonio e Filippo, avuti dalla prima moglie Elionora o Dianora Leonardis (? – 1665), figlia di Antonia Fiorenza e del Dottor Don Tiberio Leonardis, di una nobile famiglia tursitana estintasi nel 1700 (sorella di Dianora era Aloisa Leonardis moglie di un Giordano, genitori di Nicolò Giordano). Dal matrimonio di Popa e don Camillo, celebrato l’anno dopo la morte della prima moglie (1665), nacquero altri due figli, Pomponio (25 agosto 1667 – Putignano, 29 gennaio 1718) e Giovanni Andrea (29 gennaio 1669 – 23 settembre 1725). Don Camillo Brancalasso era il primogenito di Gio: Domenico Brancalasso (figlio di Lionarda Di Leo e dell’avvocato Gio: Brancalasso) e di Delica Picolla (terza figlia di Grazia Donnaperna e del dottore Don Andrea Picolla), “maritata con carta dotale stipulata a 13 giugno 1605, e fatta a 20 maggio 1606”; gli altri tre figli di Gio: Domenico e Delica erano: Nonno Brancalasso, poi celibe ma con un figlio (Tommaso, adottato dai Picolla); Grazia Brancalasso (moglie di Giuseppe Siderio), Vittoria Brancalasso (sposa di Diego Camerino).
Quando Ippolita restò vedova, nel 1670/73 (più probabilmente nel 1671), lei dovette occuparsi dei quattro figli, tutti minori: Francescantonio Brancalasso (in seguito clerico, alias Cicerone, si dottorò in Roma nel 1680); Filippo Brancalasso (morì suddiacono); Pomponio Brancalasso (dottore, morto a50 anni); Giovanni Andrea Brancalasso (arciprete, dottore, mori a 56 anni). Il matrimonio tra Pomponio Brancalassi e Geronima Manzi (1671/73? – 27 luglio 1738, “morta a 66 anni”), figlia Fulvia Magno e di Francesco Manzi, fu celebrato l’8 gennaio 1693 e diventa fondamentale per la genealogia e la storia della famiglia Brancalasso, perché ben quattro dei loro nove figli (Teresa, Agnese, Tommaso, Camillo, Teresa, Filippo, Carlo, Francesco, Niccolò) si prodigheranno per la stesura del dettagliato manoscritto Fedel memoria degli Uomini Illustri, Parenti, Stabili, Urbani e Rurali, Jus, Doti, Ragioni, Servitù, Prelazioni, Cappellanie, Benefici e sue Rendite, Notizie antiche appartenenti alla gentilizia famiglia BRANCALASSO, che ora si rappresenta dalli fratelli, Dottor Don Tommaso, Dottori Canonici della Cattedrale: Don Filippo, Abate Don Carlo e Don Nicolò Brancalasso, registrata nel 1744 (in realtà da loro stessi aggiornato dal 1443 al 1797). Il testo si rivela una miniera di notizie anche sulla società locale dal 1500 in poi, oltre a essere irrinunciabile per seguire i complicati intrecci matrimoniali tra le famiglie nobili non soltanto tursitane, con le successive generazioni, dalle quali si arriva ai discendenti di oggi, rintracciabili tra Tursi e Ancona. Il lungo manoscritto è stato trascritto, dopo anni di lavoro eccezionale e intenso, dalla studiosa di famiglia Ambra Piccirillo, moglie di Ciriaco Sciarrillo Brancalassi, possessori della copia originale del documento.
Non possediamo una descrizione dettagliata dell’aspetto fisico di Ippolita “Popa” Bitonte, ma era di sicuro dotata di bellezza, intelligenza e prudenza, come grande era il suo talento, la forza e la perseveranza nel gestire le situazioni anche difficili, qualità che ne ingigantivano l’autorevolezza e il rispetto proprio come persona, in qualche modo sublimando, superando e annullando la differenza di genere, andando cioè oltre l’angusto immaginario femminile dell’epoca. E non deve essere stato facile questo progressivo e riuscito affrancamento sia dai prevedibili legami, interessi e condizionamenti sia da invidie, manovre e pressioni, per una giovane venuta da fuori, pienamente consapevole del proprio ruolo dentro l’intreccio della più potente, misteriosa e armata famiglia nobile, in loco almeno dalla fine del XV secolo se non prima, anche se altri forti nuclei familiari non erano da meno (come i Donnaperna, Panevino, Picolla, per citarne alcuni), tutti comunque filospagnoli e all’ombra dei Doria genovesi, duchi di Tursi dai primi decenni del 1500 alla fine del 1700, sostanzialmente. Il ruolo di moglie del nobile, con tutti i “doveri” imposti dal rango, significava pur sempre una vetrina da esibire all’abbisogna e da relegare comunque nell’anonimato, come usava non solo nelle periferie del Meridione.
Ma l’acuta intelligenza manifesta e l’arte della diplomazia posizionano Ippolita fuori dai consueti canoni femminili e la proiettano in una dimensione pubblica e rivendicativa più avanzata, di fatto nel senso del processo storico delle conquiste diremmo “protofemministe”, senza rinnegare il peso e il segno della tradizione, con la famiglia e Dio come fari perenni di orientamento. E tutto questo avviene assimilando e adattando del tutto l’imprescindibile modello maschile di potere, meglio, lasciando che questo trasparisse agli occhi della società del suo tempo, anche sacrificando e negando nella vedovanza una parte basilare di se stessa, del suo essere donna. Con Popa Bitonte, forse proprio a causa di tale lunga condizione, tutto cambia con decisione, lentamente ma incisivamente, tanto che nella cronistoria familiare alla fine le si riconosceranno i meriti di “un uomo santo e dotto”! Infatti, gli storici di famiglia scriveranno di lei: “commune ava, dobbiamo tutte le obbligazioni della famiglia per essere stata la riparatrice della casa, per la quale si è conservata e si è mantenuta tanto nella stima, nello splendore, quanto nella conservazione e nella dottrina fatta insegnare ai figli e fra tutte le donne della città e convicini anzi della provincia, ne ave apportato il vanto non avendoli mancato in vita tutti li meriti di un huomo santo e dotto e si crede pienamente godere la bella gloria del cielo”.
Ippolita Bitonte apparteneva alla “prima e principal famiglia della provincia, tanto nella ricchezza quanto negl’onori ed antichità; la detta Signora Popa fu figlia del Don Pomponio Bitonte e la Signora Fulvia Planca, anche questa della primaria famiglia della Terra d’Oriolo, che non ha che cedere alli Tuscani ed altre di detta Terra, e da queste seconde nozze nacquero li Dottori Pomponio e Gio: Andrea Brancalassi… e per contemplazione del matrimonio per dette seconde nozze, da quali ne discende la Famiglia Rappresentante (i Brancalasso, e gli stessi autori del manoscritto, nda), fa d’uopo qui scrivere la copia dei suoi capitoli matrimoniali; (ciòe per maggior chiarezza si trascrive l’istromento de recepto delli doti assignati nelli primi capitoli fatti nella Nocara nel Convento dell’ Irrapice (o Terrapia) alli 7 di luglio nell’anno 1666 per mano del Notaio Benigno Salerno della Terra d’Oriolo, come si conserva nell’archivio della Famiglia Rappresentante; e tutte le scritture dotali)… narrare in qualche maniera la bontà di questa Signora Popa Bitonte, nobilissima famiglia della Terra della Nocara e nobile donna, questa per la sua bellezza restata vedova in età 26, fu da molti primari galantuomini richiesta alle nozze, ma sempre costante alle rinuncie non solo per l’amor di detti figlioli ma ancora per l’austerità della vita spirituale invano, bisogna confessare, avendo un occhio verso Iddio e l’altro verso la casa e i figli. E così tanto fece, tant’oprò colla sua inestimabile prudenza, mantenne la casa e famiglia con tutto lo splendore talchè fè dottori d’ambo leggi e il Don Pomponio, e Gio: Andrea e Francesco Antonio; ma questo fu poco che seppe colli suoi documenti e consigli ben avvertirli che seguirono li Eroi della casa”.
Per capire la cautela iniziale e le verifiche della fiducia sul campo alle quali è stata chiamata, basterà ricordare che dopo la morte del marito, Popa venne affiancata per anni da un gruppo ristretto di tutori legali dei quattro figli minorenni. Francesco Antonio, clerico, e Filippo Brancalasso, in età pupillare, erano tutelati dalla magnifica Grazia Brancalasso (vedova di Giuseppe Micele) e da Geronima Giordano, rispettivamente madre e moglie (nel 1650) del fu Giuseppe Siderio, dal clerico coniugato Francesco Antonio Panevino, da Antonello Camerino e dalla stessa magnifica Ippolita Bitonte; gli altri due figli, Pomponio e Giannandrea Brancalasso, erano sotto la tutela del buon rev. don Giuseppe Milano, rimasto solo dopo un decreto della Curia Vescovile che aveva espulso per una più che sospetta indegnità gli altri due tutori, nominati poiché parenti più vicini, ovvero il canonico Antonello Camerino e il preposito della chiesa Collegiata nella Rabattana Marc’Antonio Siderio, essendosi invece tenuto fuori dagli intrecci lo stimato Francesc’Antonio Panevino.
A conferma di tutto ciò un documento del 7 agosto 1675, quindi, a distanza di alcuni anni dal decesso di Don Camillo, nel quale si precisa esemplarmente che il gruppo fu riunito alla presenza del notaio Leonardo Antonio de Mellis, per il resoconto dell’amministrazione del patrimonio del Brancalasso, in quanto tutori legali (curiosamente, in tale atto registrato, è scritto che don Camillo sarebbe morto ‘ab intestato’ nel 1670, anziché successivamente). Gli storici della famiglia, i fratelli dottori Don Tommaso e i canonici della Cattedrale: Don Filippo, l’abate Don Carlo e Don Nicolò Brancalasso, infatti, scrivono: “Restò la tutela di detti quattro pupilli al Canonico Antonello Camerino, a Marc’Antonio Siderio e Francesc’Antonio Panevino, come più parenti propinqui; ma solo se ne astenne il detto Panevino e restarono alla amministrazione li prefati Camerino e Siderio, li quali per decreto della Curia Vescovile d’Anglona, furono espulsi e dichiarati con taccia di ladri, e detta tutela fu per pochi mesi, quindi dalla detta Curia fu fatto il tutore dativo Don Giuseppe Milano, e questo per la buona vita e fama e costumi si portò più da padre che da tutore e se li portava una riverenza grandissima, la di lui madre Prudenza Palmieri lasciò erede la Cappella, come si dirà nella rendita della medesima. E così li detti Camerino e Siderio furono tali, non v’ha dubbio che vi è il decreto della Curia, dicendolo la felice memoria del Don Arciprete Brancalassi, e da noi non si è potuto finora rattrovarlo, ma è più che vero, avendolo a noi comunicato tanto il Don Arciprete e Pomponio quanto la Signora Popa Bitonte, nostra ava, che morì nell’anno di sua età 95, nell’anno 1733”.
Anche la certezza del dono della fede in Popa Bitonte non sfociò mai nell’esasperato bigottismo religioso, riuscendo a conservare sempre una certa serena e concreta lucidità nel fare delle scelte coerenti a favore dei figli, come quando, ormai vedova da anni, i religiosi di quel tempo le chiesero di far “l’Impresa di marmo nella porta maggiore di detta Chiesa, la quale per la grandezza de’ figli pupilli trascurò a far la detta impresa”, cosa che non avvenne. Ma di tale inadempienza lei se ne rammaricò per tutta la vita, “qual trascuraggine di propria persona l’ha in più discorsi communicato alla presente Famiglia rappresentante”. Accadde pure che, in tarda vecchiaia e su richiesta di chiarimenti dei congiunti più giovani e dei nipoti, Popa confermò con candore assoluto una “raccomandazione” fatta “dall’illustrissimo Dottor Don Giulio Brancalasso, per la protezione portata dalle Spagne in Napoli, fe promuovere un suo nipote nell’udienza di Salerno d’Auditor Fiscale che si chiamava Don Gio: Francesco Brancalasso, e questo si ave per tradizione fin alla prossima morte d’Ippolita Bitonte, che mori di sua età anni 96 e non vi ha minimo dubbio”.
Don Camillo Brancalasso, avvocato, fondatore della chiesa di Santa Maria Le Grazie / Madonna delle Grazie ©
Può essere che alla base della decisione di Don Camillo, di volersi nuovamente unire in matrimonio appena l’anno dopo la scomparsa della prima moglie, ci sia stato il dubbio sulla salute dei due bimbi, “non sicuro dei due figli Francesco Antonio e Filippo nati in costanza di matrimonio colla Signora Elianora Leonardis, passata all’altra vita nell’anno 1665, volle ricasarsi, e nelle seconde nozze prese per moglie la Signora Popa Bitonte, della Terra della Nocara”. Don Camillo era un noto “personaggio, il primo Dottore della città e ricco, onesto”, avvocato, soprannominato Petto di Ferro, forse anche per la prestanza fisica e l’orgoglio dell’appartenenza familiare, ma soprattutto per il modo di intendere l’esercizio della professione, a tal punto che, anche settant’anni dopo la morte, ancora sopravviveva la diceria di una causa vinta, “a favore di un’anima“, con un suo patto col diavolo: “…e per la dottrina, che possedeva per sopronome si chiamava Petto Di Ferro, anzi fabulando ancor si dice, che fusse ligato col diavolo con cui vinse una causa a favore di un’anima”. Il Don Camillo “a suoi tempi fu il primo tra i dottori della città nell’anno 1638, e si dottorò in Napoli regnando Filippo IV Re di Castiglia, d’Aragona, e delle Due Sicilie, ed il di lui Privileggio (titolo, nda) si conserva dal Dott. Marcello Ginnari, e Signora Elianora Brancalasso dentro le rame, e la miniatura è tutta d’oro, e di un lavoro ammirabile, e raro, che almeno ha costato quattro doppie, e fra gl’ altri primi governi che fece nel Regno fece l’Agenzia, e giudicato in Gefuni, e tutti i suoi casali per più anni”.
Il dono più significativo dell’epoca, fatto da Don Camillo alla comunità, senza escludere che volesse risolvere dei contrasti con il vescovo e riaffermare il primato della famiglia, è rappresentato dalla chiesa Santa Maria le Grazie che fu eretta in contrada Brancalasso nel 1663 (lui morì nel 1673 o forse nel 1671, la fonte originale a riguardo non è univoca), “per non perder la divozione verso la S.S.ma Vergine dell’espressato titolo, determinò nella sua pia mente, com’ossequio nell’anno 1663 a fabricar una Cappella a Lamia con picciola sagrestia a man sinistra nel di dentro… prevenito dalla morte nel 1673 in circa restò tronca la sua pia deliberazione, seguita però dalla sua moglie Signora Popa Bitonte allorché era tutrice de’ suoi figli, e fondò con rendite da dirsi in appresso, la detta Cappellania con publico, e solenne Istromento ai 18 del mese di luglio 1676 per Notar Lionardo Antonio de Mellis di cui copia originale si conserva nel nostro Archivio… Edificò la Cappella sotto il titolo di S. Maria Le Grazie avanti le sue case nella contrada detta Renosa confine da un lato li beni di esso Camillo, e via publica, ed altri Parrocchia di S. Michele Arcangelo con intenzione di dotarla sufficientemente ed istituirvi il Cappellano, conforme avrebbe fatto, se non fusse passato a miglior vita, che però volendo essi procuratori Francesco Antonio, Giuseppe, Magnifica Ippolita nelli nomi predetti adempire la volontà del suddetto Camillo, che per publica voce, e fama evidentemente costa, acciò non resti defraudata dalli dovutii suffragii di messe hanno deliberato dotare la predetta Cappella sufficientemente>>. Decisiva fu, dunque, la fermezza di Popa (Ippolita) Bitonte di rispettare compiutamente la volontà del marito, dotando la cappella delle rendite necessarie (atto notarile del 1676), avendo donazioni significative dei pii benefattori almeno fino al 1779. Don Camillo morì l’8 settembre 1671, è scritto nel “libro dei morti”.
Capitali di alcuni pii benefattori della cappella Santa Maria Le Grazie ©
Signora Geronima Manzi, ducati dieci, per tre messe l’anno da celebrarsi da Cappellani, “se siano della famiglia o da suoi eredi per esser Madre della Famiglia” (Istromento del Notar Lionardo Pasca, 25 gennaio 1728); Signora Agnese Brancalasso, sorella della famiglia, ducati dodici per celebrare messe della rendita de’ Cappellani della famiglia, e dagli eredi della medesima; la somma fu data poi a Francesco d’Elia, e Lucrezia d’Amera, e le sono affrancati (Notar Lionardo di Pasca. 22 Gennaio 1739); Domenico Angelo d’Onofrio e Ippolita Giardino, da suoi antecessori, ducati nove, per celebrarne messe, e furono pagati da Marco d’Onofrio, figlio de’ medesimi “perché stavano ippotegati sopra la casa, e l’istessi sono messi nella vigna del Mosolino, per annui carlini quattro, per li detti annui carlini quattro sono affrancati dalli Don Tomaso e Nicolò Brancalassi onde paga….39.00” (Notaio Biase Schivino, 6 settembre 1745);
I capitoli matrimoniali di Don Camillo Brancalasso e Ippolita Bitonte ©
Nei Capitoli matrimoniali tra Don Camillo Brancalasso e Ippolita Bitonte, stipulati e uniti il 21 luglio 1666, copia originale dei quali era depositata nel corposo archivio della famiglia Brancalasso, poi osservata dal notaio Marc’Antonio Albisinno, della Terra della Nocara, il quale conservava l’originale, vi sono, tra gli altri beni dotali, le assegnazioni di territori per il prezzo di 128 ducati. Per duecentocinquanta ducati di capitale, sopra Roseto, sono stati venduti in ragione del 15% al Sig. Reg.go Ulloa, padrone di detta Terra di Roseto, dal capitano Orazio Greco, procuratore del signor Giuseppe Bitonte, vivente nel 17444, benché appare esser venduto al 100% nell’istrumento rogato presso il notaio Giuseppe Empoli, di Napoli, e ratificato presso il notaio Giuseppe D’Elia, della Canna, nella Nocara, nell’anno 1707. Qual capitale fosse è stato rilasciato nel testamento dal quale la Signora Popa Bitonte fu zia del Don Giuseppe, che si trova negli atti del canonico Don Geronimo Forgiani, della Terra dell’Episcopia, nella casa del quale si trova il citato testamento. “In quanto poi alle altre scritture attenenti alle dette doti tutte si conservano nel nostro archivio (dei Brancalasso, nda)”.
<<I quali Dottor. Carlo e Magnifico Francesco Antonio (Bitonte) asseriscono come nelli anni passati si contrasse matrimonio tra il suddetto Don Camillo la Magnifica Ippolita Bitonte, figlia legittima, e naturale della detta Magnifica Fulvia e del Don Dottor. Pomponio Bitonte, sorella d’essi Dottor Carlo e Francesco Antonio, in contemplazione del qual matrimonio la suddetta Magnifica Fulvia promise al detto Don Camillo e alla Magnifica Ippolita, sua figlia, fra le altre doti: – ducati 100 di contanti un’anno doppo seguito il matrimonio da predetto, conforme per istromento stipulato per Marc’Antonio Misenno sotto la data di 21 luglio 1666 al quale s’habbia rilazione, quali doti esse Magnifica Fulvia l’ha promessa sopra li suoi propri beni lasciati dal Don Pomponio suo marito per aggiudicazioni di sue doti, qual’ aggiudicazione si conserva per essa Magnifica Fulvia, Don Carlo e Francesco Antonio; ed anco li furono promessi tom. 100 di grano, oglio ed alcune quantità di animali vaccini e caprini per le quali abbenchè esso Don Camillo e Magnifica Ippolita avessero fatta quietanza in tempo della stipula di detto matrimonio, in rei maritate restano in potere della detta Magnifica Fulvia tom. 80 di grano delle quali essa Magnifica Fulvia ne fé fede di deposito tenerli a richiesta di esso Don Camillo cuius depositi tenoris sequentis – La copia del detto deposito sta riferita -.
E perché di grano non è stato sin’adesso consignato al Don Camillo, essa, Magnifica Fulvia, per complimento del prezzo di detto grano resta debitrice di ducati 28, i quali uniti con li detti ducati 100 sono 128; e perché li mesi passati da detta Magnifica Fulvia si procedé a far la divisione di tutte sue robbe per mano di Giovan Battista Salerno, della Terra della Nocara, sotto la data del 16 ottobre 1668, in beneficio di tutti li suoi figli, in particolare di Signor Don Francesco Antonio al quale assegnò la sua rata col peso di pagarne al detto Don Camillo e alla Magnifica Ippolita, che però volendo esso Francesco Antonio esimersi dal detto debito, e far il pagamento suddetto tanto per li ducati100 quanto per li ducati 28; quali similmente devone pagar esso Francesco Antonio e la Magnifica Fulvia sua madre, in solutio che però oggi tanto esso Magnifico Francesco quanto esso Don Carlo, procuratorio nomine, ne assignano per fondo dotale e per sorte al Don Camillo e alla Magnifica Ippolita qui presente li prescritti stabili per ducati 128.— Una massaria nel territorio d’Anglona con li casaleni più case dirute nel Vallone di Cercapane, confinante con Antonello Margiotta sotto, e sopra e la via pubblica di tom. 40 — Ed altri tom. 25 nel petto di Pollicoro confinante con Camillo Murio e la via sotto e sopra —
Ed altri tom. 7 nel detto territorio di Anglona nella contrada e fontana del piano di mezzo confinante con Margiotta e Panevino che tutti sono tom. 69 — Item la metà della massaria nel territorio di Tursi, nella contrada delli Pantani con grotte grandi che il Don Gio: Biase Bitonte e la Magnifica Solenna Florenzia possedevano in commune ed in diviso con il Don Tiberio Leonardis e suoi figli ascendenti confinante… — Item tom. 117 di terra grano nel territorio della città di Tursi nella Contrada di fronte… e esso Don Camillo e la Magnifica Ippolita coniugi tenendosi ben contenti e soddisfatti del suddetto assegnamento: per complimento di tutte le doti et interessi che così fusserò decorsi, per la causa di dette doti, mentre con questo ultimo pagamento s’intende essere soddisfatti di tutti l’animali, baccini, caprini, oglio, grano e parrimenti a tutte e quanto sta promesso per essa Magnifica Fulvia e assolverò tanto essa quanto suoi eredi e successori per detti doti ed interessi dotali, se pure ne fusserò decorsi dando per causa irrita e nulla qualsivoglia altra scrittura pubblica, o privata che si rattrovasse per questa causa a beneficio di esso Don Camillo e Magnifica Ippolita respettivi, rinunciando essi coniugi l’eccezione rei non tradita et pecunia non numerata…>>
Don Francesco Antonio Brancalasso, primo figlio del primo matrimonio di Don Camillo con Elionora Leonardis ©
Dovendo contrarre matrimonio Don Francesco Antonio Brancalasso, primogenito delle prime nozze di Don Camillo Brancalasso, poi clerico, fu fatta la divisione dei beni familiari paterni, con atti del notaio Lionardo De Mellis (poi in possesso del Don Signor Canonico Gio: Lorenzo De Mellis suo figlio), nei quali documenti appaiono tutte le proprietà che prima erano comuni, l’inventario e tutte le scritture attinenti alla nuova ripartizione, con quietanza dei Dottori Pomponio e Gio: Andrea Brancalasso, fratelli uterini, e della Signora Popa Bitonte. Don Francesco Antonio, quindi, fatta la divisione dei beni di famiglia, s’accasò con la signora Dianora Bitonte di Nocara, figlia del Don Signor Carlo Bitonte e sorella del Don Francesco Bitonte (vivente nel 1744), “la quale se ne morì, lasciando due figliole che ancora morirono in età pupillare, e fu disciolto il matrimonio colla restituzione della dote”. Non poco dopo la morte di questa, Don Francesco Antonio Brancalasso di nuovo si accasò con la Signora Giulia Formica, figlia del Barone Formica di Cirigliano, sorella di Isabella Formica (madre dell’odierno Dottore Francesco Panevino) e sorella ancora della madre degli odierni Dottori Gioacchino e Filippo Picolla e sorella medesima della madre del Signor Barone Don Nicolò Donnaperna e sorella finalmente dell’odierno Barone Girardo Formica di Cirigliano. Ma Giulia Formica presto morì e fu una salvezza per il marito don Francesco Antonio Brancalasso, il quale per poco non sciolse il suo matrimonio, avendola sposata per procura, secondo la volontà di Don Pomponio Brancalasso, suo fratello (e padre degli autori del manoscritto): “nello spazio di un anno se ne morì, e quasi fu grazia del cielo, che era bruttissima e fu malvista dal (marito) che poco ne fu e non si disciolse il matrimonio che sortì per procura insesta del Don Pomponio Nostro Padre; ed anche ne successe la restituzione di dote”.
Come morì il sacerdote Don Giuseppe Milano, tutore di Filippo Brancalasso, secondo figlio del primo matrimonio di Don Camillo ©
Filippo Brancalasso morì da suddiacono. In gioventù gli accade una disgrazia che fa luce sulla morte del suo tutore, il sacerdote don Giuseppe Milano. Filippo era in campagna, nei giardini del campo, col suo tutore, “huomo e sacerdote di tutta integrità e bontà di vita e di costumi”, il quale era in sella al cavallo. Dispiaciuto e premuroso che il giovane a lui affidato andasse a piedi, a caccia di uccelli, lo chiamò più volte come un padre che si preoccupa della stanchezza del figlio. Filippo ubbidì come avrebbe fatto un figlio, ma nel montare anch’egli in sella, “posò lo schioppo al collo del cavallo anche tenuto dal Don Giuseppe; portò la disgrazia che sparò e ferì mortalmente il suo tutore. Ciò vedendo se ne fuggì nelli Cappuccini”. Don Giuseppe, ferito a morte si tenne nella sua casa e dopo aver ricevuto i sacramenti, nello spazio di due giorni fece venire il figliolo nell’abitazione, davanti a tutti “perdonandolo e baciandolo insieme, confessando la disgrazia e l’accidente patito, e così se ne morì il buon sacerdote e tutore”. E questo, oltre “al dispiacere universale, fu di somma afflizione” a Popa Bitonte, la quale “aveva appoggiato tutto il suo amore ed affezione e speranza al medesimo sacerdote che ben sapeva educare i figlioli”. La madre di don Giuseppe Milano, Prudenzia Palmieri, tuttavia, nonostante la disgrazia del figlio “malamente morto”, fece erede universale la cappella della Madonna delle Grazie, di don Camillo e della Signora Popa.
Primo figlio di Ippolita Bitonte e di Don Camillo, Pomponio Brancalassi sposa Geronima Manzi ©
Il Dottor Don Pomponio Brancalassi nacque il 25 agosto 1667, battezzato dall’Arcidiacono Gio. Battista Coperta, tenuto a battesimo nel sacro fonte dal Don Francesco Bitonte della Nocara e dalla Signora Regina Coverta, a 50 anni morì a Potognano (l’odierna Putignano di Bari), il 29 gennaio 1718, come dal libro dei battezzati. Don Pomponio, figlio di Don Camillo Brancalasso e della Signora Ippolita Bitonte delle seconde nozze, germano del Don Gio: Andrea Brancalasso (29 gennaio 1669-23 settembre 1725), Arciprete della Cattedrale, restò pupillo per “l’intempestiva” morte del padre. Dalla fanciullezza cominciò a dimostrare un gran talento per lo studio; andò a Nocara, patria di sua madre, ed ebbe come educatori i signori Don Francesco e Carlo Bitonte; lì apprese i primi rudimenti della grammatica, con gran profitto, tanto che a dodici anni uscì dalla scuola, dimostrando tutta la sua maturità. Pur sollecitato dall’esempio di P. Andrea Picolla, di prendere l’abito monacale, il ventenne Pomponio invece fu mandato dalla madre Popa a Napoli, dove dimorò più anni e studiò il diritto, prima di trasferirsi a Roma per specializzarsi. “Fatto maggiore; fu sospirato da questo Oratorio di San Filippo, dal suo coetaneo Padre Andrea Picolla che fu un mostro di scienze, ma la sua madre, che fu rigorosa nell’educazione, l’avea destinato nel mondo per la conservazione della famiglia, e così appena arrivato nel vigesimo anno, si portò in Napoli alli studii legali e, per più anni ivi dimorato, si portò in Roma a privilegiarsi. Nell’anno 1685, a 15 ottobre della decima Indizione sotto il Pontificato di Innocenzo XI, come da suo privilegio approbato in Napoli”.
Ritornato a Tursi Don Pomponio, con Don Gio: Andrea, il fratello Arciprete, fu fatta la divisione dei beni paterni con Francesco Antonio e Filippo, fratelli uterini (scheda del Notaio Dottor Lionardo de Mellis). L’8 del mese di gennaio 1693, Don Pomponio sposò la venticinquenne Signora Geronima Manzi e da loro ha origine la stirpe della famiglia. Geronima Manzi nacque nella terra di Mont’Albano, dal Signor Francesco Manzi e da Fulvia Alegno (sorella del fu monsignor Vescovo di Nicotera e del Commendatore Fra’ Gio: Domenico Manzi; hebbe due fratti il Don Pietro Manzi ed il Cavaliere Fra’ Giuseppe Manzi dell’Ordine Geresolomitano di Malta. La Signora Geronima ebbe in dote duemila ducati (capitoli matrimoniali dell’8/01/1693, come depositati e copiati); in gioventù si mantenne con buona salute e partorì nove figli; fu donna prudentissima e tenace, vera discepola della suocera Ippolita Bitonte, con la quale si mantenne sempre in pace ed in armonia, di buona vita e di ottimi costumi; restò vedova per la morte di suo marito Don Pomponio “circa l’anno cinquanta di sua età”. Nella dote di Caterina, figlia maritata in Pisticci, cacciò cinquecento ducati di contanti.
Dottor Tomaso Brancalassi, figlio del Dottor Don Pomponio Brancalassi e Donna Geronima Manzi, nipote di Popa Bitonte ©
Figlio del Dottor Don Pomponio Brancalassi e Donna Geronima Manzi, il Dottor Tomaso Brancalassi, autore della memoria della sua eroica vita, nacque al’8 dicembre 1696 e fu battezzato nella Cattedrale il 13 dicembre, “tenuto e lavato nel Sacro fonte dal Don Signor Antonio Latronico”. Diventato maggiorenne, “giunto all’uso di ragione fu tradotto nella terra della Nocara sotto la disciplina dei suoi parenti dell’ava Donna Popa Bitonte, e fu sollecitato nelli primi elementi della grammatica”; quindi fece ritorno a Tursi e suo padre Don Pomponio, vedendolo applicato agli studi, lo portò con sé a Pisticci dove, da Vicario Generale e Giudice, e Ajo dei Signori Conti dell’Accerra, governava quella Terra. Successivamente, fondatosi il Seminario nella Città di Tursi, rientrò e si dedicò alle belle lettere ed erudizioni, primeggiando fra gli scolari, “egli era sempre il Cesare contro Pompeo e i pompeiani senza mai perdere, e trionfi e bandiere, e dava dimostrazione di alto sapere”. Finiti gli studi a Tursi, nel 1709 si portò nella città di Nicotera, dove era vescovo suo zio Don Antonio Manzi, in precedenza e per tredici anni Vicario Generale a Malta, “onde sotto l’ubbidienza e disciplina del Prelato si diede alla Filosofia e Teologia, e spiega di scrittura sagra, e terrena, pubbliche conclusioni come una si trova stampata nel nostro Archivio. La disgrazia fu che morì il detto Vescovo doppo quattro anni nel 1713”.
Don Gio: Andrea Brancalassi, Arciprete della chiesa Cattedrale di Tursi, secondo figlio di Ippolita Bitonte e don Camillo ©
<<Don Gio: Andrea Brancalassi (Tursi, 29 gennaio 1669 – 23/27 settembre 1725, “nel libro dei morti), “Dottore e Signore, Arciprete della chiesa Cattedrale, grande eroe della famiglia e carico di tutti gli onori”, è quello che più ha innalzato il rango della famiglia Brancalasso non soltanto in ambito ecclesiastico, con riconoscimenti e ricchezze. Nella Chiesa locale e diocesana si elevò nella gerarchia fino a raggiungere il massimo, dunque appena dopo il vescovo, anzi i vescovi del tempo, i quali gli riconobbero tutti qualità, bontà e valore indiscussi, riconfermandogli sempre gli incarichi>> – Salvatore Verde, Don Gio: Andrea Brancalasso (1669-1725), arciprete della cattedrale dell’Annunziata di Tursi (dal 9 agosto 1699 alla morte), Tursitani.it, 22 ottobre 2020.
Vittoria e Grazia Brancalasso, le sorelle di don Camillo ©
Nel 1650 Vittoria Brancalasso sposò il notaio Don Diego Camerino e il loro figlio Giuseppe Camerino si unì in matrimonio con Fulvia De Virgiliis, questi ebbero un figlio, Diego Camerino, che sposò Donna Scolastica Molfese, rappresentante della nobile famiglia Molfese di Sant’Arcangelo, e da questo matrimonio nacque Fulvia Camerino. Il Dottor Diego Camerino, poi vedovo, si risposò con Donna Vittoria Bitonte, figlia del Dottor Don Giuseppe Bitonte, di Nocara, e di Donna Lucia Giocoli, della nobile famiglia Giocoli anch’essa di Sant’Arcangelo, e nacque Giuseppe Camerino, vivente nel 1744, e nipote anche di Don Lionardo Camerino, Arcidiacono, quindi imparentato con i Brancalasso nel terzo e nel quarto grado, “fra i quali antenati vi è stata una indicibile affezione, e di casa in ogni occorrenza fra essi loro”. Si tratta, com’è ormai evidente, di una doppia parentela con i Brancalasso, appunto, tramite la famiglia Camerino e la famiglia Bitonte, essendo Vittoria Bitonte nipote della Signora Ippolita Bitonte, ava dei Brancalasso. “La famiglia Camerino “sta commoda di ogni sorte di beni e contanti e tutta la nobbiltà l’ha tirata da Vittoria Brancalasso di cui tanto se ne preggia, ed altresì dalla sua madre Vittoria Bitonte, e fra questo e l’avo, padre e zio, e la nostra casa vi è stata e vi è una reciproca affezione in ogni comune occorrenza tanto di lutto quanto di allegrezza”. Per completezza, Sabina Vitale ci ricorda che il citato Dr Giuseppe Bitonte dichiarò, nelle “rivele e nel C.O. della Università di Nocara, che una delle sue figlie, ovvero Angiola Bitonte, di anni 28, è maritata nella Città di Tursi con il Dr Carlo Filippo Spera“.
L’altra sorella del Don Camillo, Grazia Brancalasso, si maritò con il Signor Giuseppe Siderio, ”famiglia onestissima ma non nobile anche apparentata colla famiglia Donnaperna, ai primi tempi nascenti, dal quale nacque il Signor Giuseppe Siderio, huomo sodo e tutto di buone qualità, poi padre di Don Lionardo Siderio (vivente nel 1744), e dalla nostra famiglia accasato colla Signora Grazia Toscano, nobile famiglia di Oriolo, e figlia della Signora Agata Bitonte (anch’essa vivente nel 1744), nipote dell’ava Signora Popa Bitonte, quindi il detto Don Lionardo con doppio nodo si è nobilitato dalla nostra famiglia”. Con il congiunto Marc’Antonio Siderio, tra i tutori dei figli pupilli lasciati dal Don Camillo, “come dalla sua reddizione dei conti”, nacquero dei dissidi originati proprio da tale incarico, tanto da adombrare il rapporto.
Elenco dei beni ereditati dai Brancalasso da Ippolita Bitonte ©
Contrada delli Pantoni – <<Comprensorio di terre seminatorie a grano, ora misurato in tom. sessanta in circa dimaniali di questa città di Tursi franco, e libero, qual comprensorio di terre è pervenuto dalla dote della Sig.ra Ippolita Bitonte Ava della Famiglia rappresentante, seguito poi il matrimonio, fu diviso col Dottor Tiberio Leonardis, e perché pria era comune apparisce dalla intercetera delli capitoli matrimoniali di detta Sig.ra Popa Bitonte ed è del tenor seguente: = Item la metà della massaria di Tursi in contrada delli Pantoni con grotte franchi, che il Don Gio. Biase Bitonte, e Solemna/Solenna Fiorenza possedevano in commune ed indiviso con il Don Tiberio Leonardis e suoi figli, ascendenti a tom. 100 confinate da una parte li beni del predetto Fulvio Asprella, il fiume Agri, ed altri, parte boscose, e parte aratorie, = e li capitoli matrimoniali della madre furono rigolati al primo del mese di 7bre 1669 per il Notaio Gio. Battista Salerno della Terra della Nocara, = e già diviso il detto territorio la metà restò a beneficio della detta Bitonte, e metà al Don Tiberio Leonardis, e fratto, Don Gio: Maria Leonardis nell’anno 1696 nel Protocollo del Notaio Leonardo Antonio de Mellis, che si conserva da suoi eredi= che però la detta metà, in tom.60 in circa misurato, sta ora confinato dalla parte d’oriente vallone, e l’altra metà che si possiede dal Signor Giuseppe Giordano figlio del Signor Carlo Giordano erede del detto Don Gio. Maria Leonardis, da mezo giorno il vallone medesimo; e territorio del medesimo; da ponente limite mediante, che dal vallone si va al piano territorio del detto Giordano, e Don Filippo Maria Donnaperna compratore delli terreni d’Asprella e limite, limite scende nelle manche boscose, che termina in un gran vallone, terminando a Borea il fiume Agri = nacque differenza nel detto bosco con Nicolò Asprella non tanto per dette terre boscose, m’altresì per una piccola salicara nell’uscita del vallone e così per ordine della Curia restò inibito il medesimo, e dalla famiglia rappresentante si disararono le bombaci e si restò nel possesso, in quanto poi alle terre boscose nella manca furono confinate e seminate dal Don Pomponio, e perchè in parte erano lipillose non fruttarono, e così le macchie avanzarono, come appariscono, e così il Don Nicolò Asprella fe vendita di tutti i suoi territorij al Don Francesco Antonio Donnaperna senza includervi li tom.12 in circa di bosco, e senza nemmeno pagarli, perchè dal Don Tomaso se ne fe avvisato il detto Signore per Istromento da farsi dal Notaio Gaetano Nocerito, e Padre Filippo circa l’anno 1739 o più o meno, dove apparisce non esservi inclusi li detti tom.12, che si contrastavano dal detto Asprella venditore, che già sono stati sboscati dalla famiglia, e posti in cultura fin’ora 1756.>>
Massaria di Basso, anche detta di Fiorenza nel Feudo d’Anglona – <<Divisa in più membra, e compresa in più comprensorii de’ quali con chiarezza se ne darà memoria qual massaria pervenne per dote della Signora Ippolita Bitonte, parte della quale apparisce dai Capitoli matrimoniali di essa, e parte sono d’acquisto fatto dalla famiglia rappresentante: in detti Capitoli matrimoniali vi furono assignati li seguenti territorii del tenor seguente: una massaria nel Feudo d’Anglona colli casaleni, più case dirute nel vallone di Cercapane confinate col Signor Antonello Margiotta sotto, e sopra, e la via publica di tom. quaranta… ed altri tom.25 nel petto di Pollicoro confinante col Signor Camillo Murio, e la via sotto, e sopra Ed altri tom.7 nel detto territorio d’Anglona nella contrada, e fontana del Piano di Mezo confinate col detto Margiotta, e Panevino questi sono quei, che appariscono, e nella misura, e ne’ comprensorii quali erano tutti boscosi, e la misura si facea ad occhio, per che in nessuna fatta maniera poteva entrar il compasso, se appena i bacchettieri potevano sfalciare per detti boschi, pieni di cinghiali, che anche a tempo di nostra memoria ne sono annidati dietro le dette case allora dirute, di qual verità non fa ombra la misura di prima ad occhio, e così si è osservato nelle odierne misure dell’altre massarie, che in niun modo corrispondono all’antiche e sono tornate molto assai vantaggiose… Qual massaria si cominciò a sboscarsi dal Don Pomponio Brancalassi dall’anno 1708, e primieramente li casaleni erano alti, e dentro vi erano le tane de’ cinghiali, ed altre fiere selvaggie, e così abbassate le muraglie, fece tutte, e le stanze, e suppiano nuovo per commodo de’ foragi, e di buoi, come al presente appariscono, fece il Pozzo, e Pilaccio da tirar aqua a mano, doppo sboscati i terreni mancò l’aqua, dentro la media camera de’ foragi a man deritta, quando si entra vi è una foggia ora piena di terra, fatta ad uso, e conserva di biade… In ogn’anno si continuava lo sboscamento, e già molti terreni delle manche furon ridate a cultura, passato poi il Don Pomponio all’altra vita, l’Arciprete Dottor Don Gio: Andrea diede fine, e ridusse tutte le manche, e matine a cultura, ed altresì terminati i confini, come appariranno… In ora vi sono da 50 quercie, sei piedi d’ogliastri, ed altri tre dolci, e calabrici, quali sono difesi al rigore dalla Famiglia rappresentante, e così si debbiano conservare, che se non è ad uso di caccia, e fanno corona a quelle manche… Vi è la Fontana da sotto le dette quercie, e per lo spazio di vent’anni è corsa fin al vallone, ora però nell’Inverno è piena, ma nell’estàte manca.>>
Contrada delli Pastanelli nel Feudo d’Anglona – <<Comprensorio di terre seminatorie a grano e bombace, qual territorio pervenne dalla dote della Sig.ra Ippolita Bisonte, benché non apparisce dai proprii Capitoli matrimoniali pure per resto di dote si diede in assegno il riferito territorio, come appare dall’Istromento d’assegnamento e de recetto. Nel mentre che di sopra si stava scrivendo essendosi meglio osservate le scritture, il detto territorio non è per causa di dote, perché nulla apparisce, ma si ave per bocca di detta Popa Bitonte che il detto fondo fu venduto da Gio: Biase Bitonte o alla detta Sig.ra Popa, o al Don Pomponio e Gio: Andrea perciocche in uno Istromento stipulato all’undeci del mese di 7bre 1669 per mano del Notaio Leonardo Negro della Terra di Rotondella, ne si veggono assignati tutti li territorij dotali della detta Ippolita, ed insieme il detto territorio delli Pastanelli, quale non è incluso ne nei capitoli matrimoniali, e ne nell’Istromento de recepto, dunque per necessaria conseguenza il detto fondo sta per causa di compra, anche per la tradizione mentre lo voleva applicare il Sig. Peppe Camerino Seniore, e fu preferita la detta Ippolita, e che detto territorio apparisce esser del Padre e della detta Ippolita, e così sta registrato nell’Istromento del Notaio Negro di sopra espresso 1669 ed evvi la seguente particola = tom.dodici e mezo di terre a bombace, che vengono ad esser tom. sei, ed un quarto a grano nel territorio d’Anglona in contrada delli Pastanelli, confinate verso ponente le terre, che possiede il Don Camillo Brancalasso, verso tramontana con l’acquaro che va al molino di Venere, da levante l’altre terre, che li suddetti Don Gio. Biase, e Solemna possiedono in questa contrada, e da tramontana il fiume Sinno per prezzo di ducati 100 alla raggione di ducati sedici la tomolata ognuno = ed indi seguita l’altri beni dati, ed avuti dalla Sig. Ippolita Bitonte, che si possiedono dalla famiglia rappresentante, e sempre sono seminate a bombace, anche doppo devastato il Molino di Venere. >>
Petto di Pollicoro colla Matina – <<Tom.25, franco e libero dalla decima essendo dotali della Signora Ippolita Bitonte, “e corrono dell’istessa natura, come le manche e destre di Fiorenza e (così) nei Capitoli: ed altri tomoli 25 nel petto di Pollicoro confinate con Camillo Muzio, e via publica, sotto, e sopra ora sta confinato d’oriente limite mediante, e nelle matine, e nelle destre il Sig. Filippo e Gioacchino Picolla, da mezo giorno torturo, e vallone, da ponente la destra, limite o fosso dell’Oratorio, nacque differenza fra lo detto confine, e fatto l’accesso col Padrone Matteo Vallicente e Canonico Filippo Brancalasso, fu terminata anche da periti, con darsi da due stoppelli di terra in circa al detto Oratorio di quà dal fosso, benchè mai l’hanno coltivato essendo sassoso, e sempre in parte si è coltivato dalla famiglia rappresentante, essendo uno scopizzo mediato, e diviso dal fosso suddetto>>.
Acqua Salza – <<Comprensorio di terre a bombace con coste da tom. cinque in circa con un gran piede d’oliva nel mezo confinata da mezo giorno via publica,e gran vallone, da Borea via publica data a censo perpetuo per annui carlini dieci, ed ora corrisponde da Filippo Salerno, qual fondo per tradizione de audita dalla Signora Ippolita Bitonte Ava della Famiglia era avvanzo, o rimasuglia delle rendite della prima Cappella eretta nella Cattedrale a dietro notiziata (Il detto territorio fu dato a censo a 7 Marzo nel 1695 e 98 in un libro nella Scheda del Notar Lionardo de Mellis visto da me a Giacom’Antonio Salerno dal Dottor Gio: Andrea Brancalasso, come dall’Instromento nel detto di, nel detto anno, e nel detto protocollo). Filippo Salerno 1.00.>>
Piano di Mezzo, contrada e fontana – <<Misurato in tom. nove, e stoppella sei franco, e libero dalla decima pervenuto dalla dote della Signora Ippolita Bitonte, e concorre colla natura di detta massaria, e ne’ i Capitoli evvi la seguente particola:— ed altri tomoli 4 nel detto territorio d’Anglona nelle contrada e fontana del Piano di Mezo confinta col Don Margiotta, e Panevino. Sboscato dal Canonico Dottor Don Nicolò Brancalasso nel 1741, ora sta confinato d’oriente limite mediante il Sig. Filippo. e Gioacchino Picolla, da Borea fosso e torturo: e nel ciglio vi è l’antica Fontana del Piano di Mezo, ora mancata>>
Contrada della Pizzosa – <<Comprensorio di terre a grano di tomoli dodici e mezzo, ossia Fronte del Tinchio, pervenuta dalla dote della Signora Ippolita Bitonte moglie del Don Camillo Brancalassi.>>
Pilaccio e botta – <<Fu fatta dal Canonico Dottor Filippo per il maggior commodo d’abbeverare e conservarsi l’acqua colla spesa di ducati 60 a 20 Aprile 1755>>
Salvatore Verde ©
LA TERRA DI IPPOLITA BITONTE: NOCARA NEI MITI
Nocara, situato nel nord della Calabria, al confine con i comuni di Nova Siri, San Giorgio e Valsinni, tutti in provincia di Matera, nella Basilicata. Il piccolo centro di antiche origini, oggi in provincia di Cosenza, faceva parte da sempre della diocesi di Anglona e di Anglona e Tursi, che divenne poi Diocesi di Tursi e Lagonegro, nel 1976. In tale anno, con la regionalizzazione dei confini ecclesiastici, Nocara rientra nella diocesi di Cassano allo Jonio, pur conservando tuttora la memoria viva di antichi legami non soltanto religiosi con la diocesi lucana. Il toponimo Nocara deriverebbe da “albero delle noci”, dal greco-bizantino nux graeca medievale, che però indica il mandorlo. Ma i nocaresi amano e coltivano una importante, plurima e radicata mitologia, pur non avendone l’esclusiva della credenza popolare e della ricerca e conferma accademica. Tale leggenda assume i caratteri storico-biblici, letterari e archeologici: – sarebbe nato qui Ponzio Pilato, il procuratore romano della Palestina che permise il martirio di Gesù; – Nocara sorgerebbe sui resti dell’antica Lagaria e, già dal XVII secolo, era diffusa la credenza della fondazione di tale città operata dall’eroe greco Epeo, con i compagni in fuga (i lagaroi, gli esausti), ma sarebbe anche il nome della madre del costruttore del cavallo di Troia (ma la leggendaria Lagaria è identificata anche con Amendolara, Trebisacce e Cassano allo Jonio, in Calabria, e con Valsinni). Ma qualcuno ritiene che il nome Lagaria sia associato al pastore Lagaride che abitualmente pascolava il gregge sul rilievo dove è sorto l’abitato; – dopo l’Iliade, altro richiamo ad Omero, con l’Odissea, ovvero alla grotta dove il ciclope Polifemo aveva recluso Ulisse e i soldati al seguito, una caverna occupata già in tempi preistorici nel Piano della Noce; – infine, la cappella medievale di S. Rocco sarebbe collocata sui resti di un tempio dedicato ai Dioscuri, i mitici figli di Zeus, Castore e Polluce, a conferma dell’antica dominazione greca. (s.v.) ©