1 – Cappelle, cappellani e cappellanie di Tursi (1501-1800)
La cappella è una edificazione religiosa di dimensioni ridotte e adibita alla pratica devozionale, generalmente legata a una struttura di culto più complessa, talvolta inserita al suo interno, ma può essere anche all’esterno. Costituisce un beneficio ecclesiastico, come una pia fondazione che adempie la volontà di un fedele, per testamento e donazione, finalizzando le rendite specialmente alla celebrazione di messe, da un certo altare di una chiesa. Alla famiglia donatrice era riconosciuto il diritto di patronato ed era collegato a un lascito, che assicurava il culto divino attraverso un beneficio a favore del cappellano, il quale era sostanzialmente svincolato dal culto delle anime. Per tale ragione, si consolidò l’uso di chiamare cappellania le chiese diverse da quelle parrocchiali e cappellano il sacerdote non parroco (istituzione medievale del XIII secolo). Genericamente, il termine denota un sacerdote addetto all’ufficiatura di una cappella, giuridicamente titolare e responsabile di una cappellania. Nell’uso corrente, addetti anche al servizio di qualche cappella o chiesa, non necessariamente ente morale, e alle cure d’anime in situazioni particolari (cappellanie ospedaliere oppure universitarie o quelle destinate ai migranti), ma storicamente troviamo i cappellani di corte, di famiglie nobili, di istituti religiosi femminili (e maschili, se laicali), di carceri, ospedali, militari, del Papa.
La cappellania, dunque, può definirsi un ente ecclesiastico costituito per volontà di un credente che, mediante donazione o testamento, fornisce i beni per realizzare un fine di culto da lui stabilito (solitamente la celebrazione di un determinato numero di messe da uno specifico altare di una precisata chiesa). “Le cappellanie sono dette ecclesiastiche se sono state erette dalla competente autorità ecclesiastica, laicali se fondate da laici come masse patrimoniali autonome”. Dopo l’Unità d’Italia, la decretazione del 17 febbraio 1861 per le provincie meridionali e il disposto del codice civile, limitarono e bloccarono la diffusione delle cappellanie; poi la legge 15 agosto 1867 soppresse indistintamente tutte le cappellanie; solo quelle ecclesiastiche sono state riconosciute dal Concordato lateranense del 1929 e poi dalla legislazione italiana, forse perché è mutata la natura stessa, “divenendo benefici parrocchiali… coadiutoriali di una parrocchia, aventi cioè unita quella cura d’anime che il sistema della nostra legislazione vuole non sia mai pregiudicata” (Arturo Carlo Jemolo, Enciclopedia Italiana Treccani, 1930).
C’è stato un tempo di grande fervore religioso, economico e sociale nella Città di Tursi, come altrove ho sempre sottolineato. Tale slancio era animato soprattutto e chiaramente dalle grandi famiglie nobili e altolocate. Tempo ne è trascorso, ma mi ostino a pensare che non tutto sia andato perduto, per quanto concerne le tracce delle testimonianze del passato, e mi riferisco a oggetti e soprattutto edifici, ma anche a carte e documenti, che nessuno dovrebbe distruggere o buttare, mai. Non si può essere sicuri del tutto di aver compreso appieno il valore assoluto di un reperto o il contenuto di un manoscritto o di un testo (oppure di un libro). Dipende sempre dalle domande che pongono i differenti ricercatori. Pur impedito dall’approfondire la ricerca all’esterno, credo che si possano ancora trovare in loco, ed è un mio realistico convincimento cresciuto negli anni, fonti e notizie interessanti, importanti e affidabili sul piano storico, quindi su specifici argomenti, fatti e personaggi, nel caso dal 1500 al 1800 circa. Ma questo sprono vuole essere pure una sfida a ricercare, nei piccoli e grandi archivi di casa, i materiali tenuti in segretezza, posseduti e gelosamente conservati come reliquari, mentre vanno fatti conoscere e diffusi, superando insensate miopie, egoismi e gelosie, perché solo con il confronto plurimo si percorrerà insieme la strada dell’avanzamento della conoscenza dell’amato paese.
Ci saranno purtroppo sempre meno studiosi esterni che si dedicheranno alle diverse vicende e alle non marginali questioni storiche di Tursi, ponendosi nell’ottica oggettivamente serena del disvelamento del ruolo, pur circoscritto e senza enfasi, della realtà tursitana nello scenario almeno regionale. È già capitato, e di certo si ripeterà ancora, magari con sempre più diradate incursioni intellettuali, che studiosi professionisti, esperti di diverse età e rispettabili accademici, anche serissimi e autorevoli, siano incappati in “incidenti” di percorsi di sintesi locale, proprio perché se non avulsi dal territorio, quantomeno presi dal lavoro teoretico, dalla interpretazione dei documenti, dal dibattito circoscritto agli addetti della “scuola” di appartenenza, magari con lo stesso orientamento e indirizzo analitico, metodologico e di impostazione. La sempre più crescente rilevanza attribuita alla microstoria nella comprensione delle tendenze anche della macro storia, legittima e giustifica il pur modesto apporto dei seri appassionati studiosi locali, dei dilettanti, i quali sovente si sobbarcano sacrifici e fatiche enormi, in termini di tempo, impegno, studio, verifiche, e senza gratificazioni, proprio per la loro onestà e consapevolezza degli studi pregressi e della stessa complessiva formazione. Non tutti i dilettanti sono uguali, esattamente come i professionisti, triste verità incontrovertibile. E forse non è azzardato pensare che taluni scivoloni clamorosi di studiosi esterni, siano stati causati anche dal contributo locale di improvvisatori superficiali, emblematico il caso delle grotte dentro la collinetta del castello, ritenute antiche e continuamente così ribadite anche in pubblicazioni recentissime, nonostante sia una falsità gigantesca, nota, dichiarata e sotto gli occhi di quasi tutta la popolazione tursitana (sono state scavate, infatti, negli anni Sessanta del Novecento dal rabatanese Laragione, alla ricerca di un fantomatico tesoro).
Dunque, si esclude ogni pretesa di esaustività, ma questo contributo vuole essere un apporto certamente corposo, documentato e affidabile per lo studio delle cappellanie tursitane, comunque utile in futuro poiché, e nessuno lo può seriamente escludere, in qualche modo si lavora sempre per la posterità. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile, per quanto mi riguarda, senza il contributo di uno studio archivistico di assoluto valore, pur con altra finalità, portato a compimento dalla grande ricercatrice pugliese Rosanna D’Angella (Ricerca genealogica della famiglia Panevino per John Giorno, 1550-1936, documentazione inedita). La tradizione delle cappellanie è stata solida e duratura nel periodo citato, tra i secoli XVI e XIX, e si è sviluppata all’interno di tutte le chiese locali, sia nelle tre parrocchiali (la collegiata della Rabatana, san Michele Arcangelo e la Cattedrale dell’Annunziata) che nelle altre di più recente costruzione allora (sant’Anna e san Filippo Neri, ma anche nel convento di S. Francesco e nell’Oratorio di S. Filippo Neri). I dati parziali non consentono la ricostruzione meticolosa delle vicende legate al fenomeno nel suo complesso e neppure di tutte le singole vicissitudini, tuttavia, restituiscono il sostanziale sentire religioso e anche il clima e l’ansia di quel tempo. Tutto era proiettato all’acquisizione di opere di bene per aprirsi un varco nell’immortalità dell’al di là, e se proprio il paradiso non era (ed è) forse meritato, almeno era lecito e comprensibile sperare nella certezza del perdono e del purgatorio, sollecitato, diciamo così, da donazioni e lasciti più o meno sostanziosi.
Capire come e perché si addiveniva alla scelta della intitolazione della cappella e del culto non è facile, per la eterogeneità dei consistenti nuclei nobiliari, non sempre tutti in armonia e a volte anche in contrasto tra di loro, ma di certo non erano estranee le inclinazioni gerarchiche dei singoli componenti delle famiglie e degli stessi congiunti diventati esponenti autorevoli del numeroso clero, magari assecondando una indicazione del vescovo, almeno per le cappellanie ecclesiastiche, a Tursi davvero assai poche, curiosamente. Non secondario era il legame proiettivo e diremmo empatico con il vissuto di Cristo e della Madonna o del particolare santo prescelto; come pure significava molto l’interpretazione eccezionale e finanche miracolosa data a situazioni ed eventi straordinari che trovava lo scioglimento del mistero proprio in tale decisione; non in ultimo contava l’intimo ringraziamento o l’adempimento di un impegno oppure di un voto, oltre alla personale visione del mondo e il singolare rapporto con la trascendenza. Ma anche il solo nome del “committente/patrocinatore” aveva la sua relativa importanza.
2 – Cappella di San Nicola nella chiesa Collegiata di S. Maria Maggiore della Rabatana di Tursi (riferimenti ad atti del periodo 1501-1750) ©
La Cappella di San Nicola eraoriginariamente collocata fuori dall’abitato della Rabatana, non è esattamente acquisito dove fosse, se all’interno di quale luogo di culto oppure come cappella isolata e a sé stante; di certo era nella contrada di fronte al castello della città (olim sitam et positam extra moenia… in loco dicta Del/Lo Fronte de/di Milvi iuxta castrum dicte civitatis”). Dagli atti del periodo 1599-1604, del notaio Giovanni Donadei, di Tursi, si apprende che “al presente (nel 1604) è stata traslata nella chiesa Collegiata di Santa Maria Maggiore di Tursi e posta a destra dell’altare maggiore e a sinistra della cappella della Purificazione (degli eredi della famiglia del fu Antonio di Noya), ed “ex parte inferiori iuxta Cappellam Sanctissime Core ad quem descenditur per scales”, per concessione fatta il 21 maggio 1501 da Jacobo de Capua (Giacomo di Capua), patrizio napoletano e vescovo della diocesi di Anglona (1499-1507). Inoltre, i documenti esplicitano la storia del passaggio del giuspatronato e di come pervenne alla famiglia Panevino. Lo stesso notaio Donadei scrive che il presbitero Giovanni de Lao, una volta cantore della chiesa di Anglona (olim cantoris Ecclesie Anglonensis), istituì sua erede universale Dialte Sanfelice, con testamento rogato nel 1528 dal fu notaio Angelo de Asprella di Tursi. Pertanto, Pomponio de Santissima ed Emma de Aligretto, col consenso di suo marito Marco Antonio de Basile, entrambi in qualità di eredi del fu presbitero G. de Lao, mediante la citata Sanfelice, asserendo di possedere il giuspatronato della Cappella di San Nicola, ladonano inter vivos (donazione fatta tra persone ancora viventi) a Giovanni Lorenzo Panevino seniore (notaio G. Donadei, 19 agosto 1604). Morto G.L. Panevino seniore, i suoi figli ed eredi Matteo Panevino e suo fratello Pietro Antonio Panevino, prendono possesso del giuspatronatol’anno successivo (notaio G. Donadei, 22 maggio 1605). Poco dopo, Matteo Panevino dona un terreno a beneficio del cappellano pro tempore (notaio G. Donadei, 22 luglio 1605). A distanza di 17 anni, lo stesso Matteo Panevino, sostituisce il cappellano, canonico Giovanni Antonio Asprella, nominando come nuovo cappellano suo figlio Giovanni Lorenzo Panevino iuniore, clerico (notaio Giuseppe de Salvatore, 31 agosto 1622).
Virginia Asprella, figlia ed erede del fu Mutio Asprella (figlio ed erede della fu Virginia Panevino, unica figlia ed erede del fu Pietro Antonio Panevino), insieme con il rev. don Andrea Asprella e Nicolò Asprella, figli ed eredi di Fulvio Asprella, questi figlio di Giovanni Asprella, fratello del suddetto Mutio, nel 1703 donano inter vivos il giuspatronato della cappella di S. Nicola, eretta nella chiesa Collegiata della Rabatana, posseduta un tempo dal detto Pietro Antonio assieme a suo fratello il fu Matteo Panevino, al dottor Giovan Battista Panevino, figlio di Matteo Panevino (notaio Nicolangelo Vitelli, 4 novembre 1703).
Alcuni anni dopo, il cappellano rev. don Leone Orlando, commorante in Napoli, firma il mandato di procura a favore del rev. canonico don Biagio Panevino, quale procuratore della cappella di S. Nicola,di giuspatronato della famiglia Panevino (notaio Leonardo Pasca, Tursi, 10 maggio 1711).
Lo stesso rev. canonico don Biagio Panevino, con mandato di procura delle famiglie Asprella e Panevino, è poi procuratore del rev. don Leone Orlando di Napoli, cappellano della cappella di S. Nicola (notaio L. Pasca, 16 aprile 1723). Tre anni dopo (notaio Filippo Nocerito, Tursi, 25 marzo 1726) è padre Paolo Panevino, dell’Oratorio di S. Filippo Neri, nuovo procuratore del cappellano rev. don Leone Orlando, suo nipote (di zio). A distanza di tempo, il rev. canonico don Biagio Panevino ritorna nuovamente procuratore del cappellano rev. don Leone Orlando, sempre commorante in Napoli (notaio F. Nocerito, Tursi, 13 aprile 1743). Morto il cappellano don Leone Orlando, alla metà del secolo (notaio Gaetano Nocerito, Tursi, 21 maggio 1750), la famiglia Panevino presenta e nomina padre Francesco Maria Sabarese, dell’Oratorio di S. Filippo Neri di Tursi (figlio di Nicolò Sabarese e Giulia Panevino), nuovo cappellano e rettore della Cappella sotto il titolo di S. Nicola, eretta dentro l’insigne Chiesa Collegiata di Tursi, da parte: dell’arcidiacono don Saverio Panevino, dell’arciprete don Filippo Panevino e del dottor Francesco Panevino, fratelli germani; del rev. don Biagio Panevino; come pure di Francesco Antonio Panevino, del canonico don Michele Panevino e del canonico don Matteo Panevino, fratelli germani.
Salvatore Verde ©