Solo luttuose vicende familiari mi hanno impedito di dedicare anzitempo la giusta e doverosa attenzione a Giovanni Di Lena, valoroso poeta lucano (Pisticci, 1958), che mi ha donato le sue graditissime “piccole faville” (Villani Editore, Potenza, 2022, pp. 64, 10 euro).
Questo il titolo della sua preziosa pubblicazione, una intensa e notevole raccolta di poesie fresca di stampa, l’ultima della sua impegnata produzione, la nona in circa trentadue anni, essendo iniziata nel 1989 (seguita da altre nel 1994, 1996, 2003, 2007, 2011, 2015, 2018). Per una questione affettiva e di legami tursitani, e lo dichiaro con immediatezza, respiro anche rimandi e suggestioni di casa, avendo l’autore inserito tra gli altri nella dedica, “con riconoscenza”, Rosa Maria Fusco, poetessa autentica dell’ultimo mezzo secolo, e affidato l’acuta postfazione ad Antonio Rondinelli, entrambi dell’amato pese.
Diviso in due parti, “Faville sparse” e “Intime faville”, l’insieme delle 49 liriche asseconda l’umano quanto naturale strabismo necessario dell’impegno sociale e della memoria esistenziale, dunque sempre in bilico sul versante pubblico/privato, tra il disincanto di una ispirazione mai smarrita e l’intimità di una ricerca trasparente, offrendosi il tutto come approdo di un itinerario in grado di evocare una originale idea del mondo e della stessa poesia, caratterizzata dall’assoluta liberta anche dei versi, perciò nella brevità della forma che è coerente con il lavorio dei pensieri, tra razionalità e inconscio.
Un viaggio segnato da scintille illuminanti e realisticamente amaro tra “Il tuo cuore” (della poesia “Rocco Scotellaro”, proprio in apertura) e “a fantasticare” (di “Nessun rumore”, nella chiusura ultima). Quasi a indicarci l’orizzonte del superamento della realtà, possibile (anche) con il sentimento visionario. Ma il merito di Di Lena va oltre, di aver tentato l’impossibile, cioè quello di voler cercare e trovare la poesia anche là dove non ci può essere, ovvero nel quotidiano oscillare della pratica lotta per il potere e nella ostinazione necessaria della sua affannosa conservazione, con il corollario dell’ansia utopica di giustizia, bisogni e merito.
Alla fine, tuttavia, il poeta sembra avere ragione, perché c’è, ci può essere comunque poesia dappertutto, senza finzioni, ingenuità e velleitarismi, basta sentirla o immaginarla, e saperla vivere con autenticità (sovente pure sofferta) e senso dell’eterno, con il respiro universale delle parole dotate di senso.
Salvatore Verde