Capita raramente ad una intera comunità locale di tributare in modo sostanzialmente unanime i dovuti onori e i meritati riconoscimenti ad un conterraneo ancora in vita. Com’è noto da sempre in ogni angolo del pianeta, per una serie di ragioni ben spiegate da psicologi, sociologi e antropologi, la piena consacrazione dell’artista si realizza post mortem. Ai Tursitani, invece, è successo di festeggiare giustappunto e soltanto il maturo poeta Albino Pierro, il figlio più illustre della gloriosa storia ultramillenaria di Tursi.
Dunque, a fine ottobre del 1982, per due giorni nella cattedrale dell’Annunziata, si è svolto un memorabile convegno sulla poesia pierriana. Parecchi dei maggiori studiosi italiani hanno celebrato la grandezza poetica dell’autore e la sua assoluta originalità linguistica e intensità d’ispirazione, ritenuta in assoluto tra le più importanti del Novecento. In qualche modo si trattava di una riconciliazione attesa e desiderata, ma a lungo rinviata dalla popolazione locale che, dopo anni di sostanziale indifferenza e superficialità, si adoperò perché l’atteso evento culturale si verificasse.
Neppure tanto prevedibile l’altra occasione, l’ultima possibile con la sua presenza-assenza, verificatasi dopo la morte del poeta, causata dai postumi di un intervento chirurgico e sopraggiunta il 23 marzo 1995 in un ospedale di Roma. Tre giorni dopo, la salma veniva trasferita nel paese natale per il funerale. I resti furono accolti definitivamente con un tenero, emozionato, spontaneo e malinconico abbraccio ideale della moltitudine di compaesani, colpiti anche dal suo non senile desiderio esaudito di essere tumulato nella piccola cappella di famiglia del cimitero tursitano. Non a caso, subito dopo l’Amministrazione comunale e la cittadinanza si unirono in modo indelebile e con affetto istituzionale allo scomparso, in un unico destino toponomastico a imperitura memoria, deliberando la denominazione ufficiale di “Tursi Città di Pierro” (recentemente mutuato in “Tursi La città del poeta Albino Pierro”). Sulla stessa scia la scuola statale di base volle a lui intitolarsi (allora Direzione didattica, oggi nella configurazione dell’Istituto comprensivo). Da allora, nelle rilevanti manifestazioni culturali, in sede locale e anche in regione, sono costanti il riferimento al poeta e la riproposizione delle sue liriche in dialetto, da parte di un attento vasto gruppo di amatoriali cultori e di talentosi interpreti professionisti.
In entrambe le circostanze, di acclamazione e tristezza, con la gente del luogo sono intervenuti da fuori molti ospiti, autorità civili e religiose, esperti ed estimatori di ogni livello e selezionati veri amici, vicini e lontani, quasi a ricordarci un paio di superiori verità: un autentico Poeta (e ne nascono così pochi ogni cento anni) appartiene all’umanità, in particolare ai fortunati che lo hanno conosciuto, letto e compreso; inoltre, le opere di valore (anche se non tutte coronate dal successo commerciale o di pubblico) proiettano l’autore nel ristrettissimo alveo della immortalità dell’arte, ben al di là dei limiti spazio-temporali e relazionali nei quali egli ha vissuto.
Albino Felice Pierro era nato alle 20,30 del 19 novembre 1916 nella casa paterna, al numero 15 di via Duca degli Abruzzi, nel quartiere “Rabatana”. Tursi contava allora poco meno di 4000 anime, quelle giovani erano al fronte e molti non faranno ritorno. Terzo figlio di Giuseppe Salvatore Giacomo Pierro, un noto possidente terriero, titolare anche di un attivo frantoio, e di Margherita Ottomano, giovane insegnante elementare, sposata in seconde nozze. (Il padre aveva avuto una prima moglie, originaria di Colobraro, dove si celebrò il matrimonio, morta prematuramente e senza eredi). Giuseppe Mario Pierro, il fratello maggiore di Albino, è stato un noto avvocato a Salerno, e il secondogenito Maurizio Pierro, dapprima maestro elementare (ha insegnato anche a Tursi), dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza ha percorso una notevole carriera nella Magistratura. Anche l’unione matrimoniale dei genitori non durò a lungo, poiché la madre morì trentenne, poco dopo la nascita di Albino, con tutta probabilità proprio per le conseguenze del parto.
Il padre si risposò ancora con Domenica Basile, dalla quale sono nati Felicetta e Osvaldo. Cresciuto nel centro storico, nei pressi del palazzo baronale della Famiglia Brancalasso, con l’esclusivo affetto protettivo delle zie nubili, Assunta e Giuditta, “le signorine della Posta”, il giovane frequentò ben presto la biblioteca dei cugini Capitolo, Manlio (giurista finissimo, poi presidente dei Tribunali di Venezia e Roma) e Guido (docente di Lettere e preside di liceo in Friuli), ai quali era legatissimo. Al contrario dei due fratelli e dello stesso padre, il futuro poeta non era un provetto chitarrista-mandolinista, suo svago preferito dopo le amate letture, appassionato di testi di filosofia e dei classici russsi e inglesi.
Presto sradicato per motivo di studi, ha vissuto in diverse altre località: a Taranto, Salerno, Sulmona e Fusine in Val Romana, in provincia di Udine (al seguito del cugino Guido), Novara (dal 1936, dopo aver interrotto gli studi), poi a Lanuvio, in provincia di Roma, dove vive con il fratello Maurizio e collabora alla “Rassegna Nazionale”. Trasferitosi definitivamente nella Capitale dal 1939, lo studente lavora come volontario presso la biblioteca Alessandrina, consegue il diploma Magistrale da privatista e si iscrive alla facoltà di Magistero, corso di Filosofia e Pedagogia. Scrive e pubblica favole per bambini su “Il Balilla”. Durante il secondo conflitto “mondiale”, nel 1942, sposa Elvira Nardone che partorirà Maria Rita, la sua unica figlia. Dopo un altro periodo nel paese natio, si laurea nel dicembre 1944 discutendo la tesi “La teoria dello Stato in Sant’Agostino”. Dall’anno dopo comincia l’insegnamento di Storia e Filosofia nei licei, durato fino al 1971, quando passa alla carriera ispettiva del Ministero.
Benestante, dotato, sensibile e visionario, l’apparentemente fragile “Don Albino” (come veniva appellato con reverenzialità, e lui se ne compiaceva in certo modo) si è sentito sempre e visceralmente tursitano, vivendo il paradosso esistenziale della immutabile distanza che intensamente avvicina, comunque segnato dall’assenza della madre (che non poteva neppure ricordare) e dalla mancanza di ordinarietà (che non ha incarnato, neanche da bambino, ad esempio nessuno ricorda di averlo visto giocare o essere momentaneamente in disordine), possedendo al contempo una sconfinata curiosità intellettuale e acuta ironia (chi lo ha conosciuto, necessariamente poco, ricorda particolari eccentricità, come l’attrazione per l’escatologia, insistita la sera dopo il tramonto, tanto da suscitare negli astanti ansie e timori fino alla fuga, cosa che lo divertiva). In gioventù Pierro è stato un irregolare negli studi e, pure dopo, non facilmente restringibile in schemi, solitamente appartato e solitario, insofferente e sognatore, inappagato e tormentato in genere. Non è casuale che per taluni critici la parola tematica e simbolo della sua condizione esistenziale sia “ghiòmmere”, groviglio, tanto sembra intrecciata e immaginativa la realtà poetica interiore da lui evocata in migliaia di versi e con uno stile inimitabile.
La straordinarietà di Pierro emerse con la scelta dell’arcaico dialetto tursitano, a seguito di un breve soggiorno a Tursi del 23 settembre del 1959, quasi un ritorno psicoanalitico alle origini e una materna regressione nel vi(ll)aggio dell’anima e del ricordo, nelle vagheggiate terre del silenzio. Deprivata di aspetti idilliaci o pittoreschi, la scoperta della lingua dialettale (“mezzo espressivo consacrato alla poesia”) è in funzione di una poetica alta ed elitaria, intimista, con l’immanente incombenza del senso del tragico e l’ossessiva costante presenza della morte. Ma non mancano altri temi simbolici e concreti come la solitudine oppure quello amoroso (che è tutt’altro che minoritario, come dimostra questa raccolta antologica), con le valenze metaforiche del sonno e del sogno, pur essendo tale dialetto conchiuso nella cultura dell’oralità popolare e contadina e formalmente privo di alcuna tradizione letteraria scritta, perciò di difficile approccio e, quindi, incapace di attrarre grandi lettori.
I quali, in ogni dove, restavano calamitati dalle performaces dal vivo (e perfino mediante i filmati documentari cine-televisivi) del poeta, rivelandosi potente e sciamanico incanta(t)tore. Ricordiamo, tuttavia, che l’antichissimo dialetto romanzo, lingua protostorica e neolatina, era stato ben studiato nel 1939 dal tedesco Heinrich Lausberg, 1912–1992 (poi da Lundke, Varvaro. Mancarella e altri) che ne aveva colto caratteristiche e specificità uniche nel basso Sinni, tra Tursi, Valsinni e Senise, in glottologia “Area Lausberg”, appunto. Inoltre, la Scuola Normale di Pisa ha fatto analizzare con meticolosità l’opera pierriana, raffrontando i singoli termini dialettali utilizzati in tutti i libri. Durata un quinquennio, l’indagine ha prodotto nel 1985 le “Concordanze”, caso unico per un autore vivente (riservato nel passato solo a due poeti: il milanese Carlo Porta, 1775-1821, e il romano Giuseppe Gioacchino Belli,1791-1863).
Anche per tale non secondario motivo, relativo all’ostico dialetto, nella stessa Lucania c’era sempre chi gli preferiva (l’esperienza di) altri notevoli scrittori: dal classicismo neoromantico della tragedia proto femminista di Isabella Morra (1525-1548) all’elitismo scientifico-letterario di Leonardo Sinisgalli (1908-1981), dall’impegno rigoroso e sfortunato di Rocco Scotellaro (1923-1953) al meridionalismo anche pittorico di Carlo Levi (1902-1975) e alla ricerca colta dell’allora giovane Raffaele Nigro (1947). Altrettanto accadeva in Italia, con dualismi controproducenti (il giornalista Rai Rocco Brancati ipotizza e stampa un “Intrigo a Stoccolma”, per il mancato Nobel a Pierro, dopo la polemica che ha coinvolto pure il grande poeta Mario Luzi, 1914-2005) e con le risibili quanto insistite assurdità scaramantiche, né può essergli rimproverato l’impegnò anche tenace per l’affermazione della sua consapevole genialità creativa, non accettando la definizione di “poeta dialettale”.
Ma l’Università degli Studi della Basilicata, era magnifico rettore Cosimo Damiano Fonseca, lo omaggiò nel 1992, conferendogli la laurea honoris causa e con un altro eccezionale convegno. A livello internazionale, invece, non venne meno l’ammirata considerazione. Ormai notissimo, nel 1985 fu invitato dall’Università di Stoccolma a recitare le sue poesie in tursitano, mentre proseguivano le traduzioni delle liriche in molte lingue (oggi sono in totale circa quaranta) anche extraeuropee. Addirittura, più volte è stata accreditata la candidatura al premio Nobel tra gli anni Ottanta e Novanta. Insomma, la lunga bibliografia, con i saggi di molti critici e accademici, su Pierro è davvero oltremodo ricca e autorevole, anche considerando a parte i contributi di eminenti studiosi inseriti nelle numerose raccolte, con interventi, prefazioni e recensioni.
Dal 1946 agli anni Cinquanta, Pierro ha scritto e stampato molte raccolte di poesie in lingua italiana, che suscitarono allora tiepidità e moderata benevolenza. La stessa produzione è oggi rivalutata (assieme ai racconti e alle poche opere teatrali) non solo dalla critica ufficiale, che ha decretato il riscatto dall’oblio dei versi contenuti nei testi: Liriche (1946), Nuove Liriche (1949), Mia madre passava (1955), Il paese sincero (1956), Il transito del vento (1957), Poesie (1958), Il mio villaggio (1959), tutti inclusi nell’antologia Appuntamento (Laterza, Bari) del 1967.
Nel 1959, lo ribadiamo, muta i propri strumenti linguistici e nell’anno successivo pubblica contemporaneamente Agavi e sassi, in lingua,e una raccolta di versi in dialetto tursitano, A terra d’u ricorde (La terra del ricordo). Ne seguiranno tantissime altre e sempre in lingua dialettale: I’nnammurète (Gli innamorati) e Metaponto, entrambi del1963; tre anni dopo esce una nuova edizione di Metaponto (che include anche i testi pubblicati precedentemente in tre diverse raccolte) ed è finalista al premio “Viareggio”; nel 1967 stampa Nd’u piccicarelle di Turse (Nel precipizio di Tursi), da taluni collocato ai vertici della poesia italiana. A seguire: Eccò ‘a morte? (Perché la morte?, 1969), medaglia d’oro a “Il Ceppo” e finalista al “Chianciano”; Famme dorme (Fammi dormire, 1971), Curtelle a lu sòue (Coltelli al sole, 1973), Nu belle fatte (Un bel fatto – Una bella storia, 1975).
Nel 1976 vince il premio “Carducci” e poi arrivano: Com’agghi’a fè (Come devo fare, 1977), Sti mascre (Queste maschere, 1980), Dieci poesie in dialetto tursitano (1981), Ci uéra turnè (Ci vorrei tornare, 1982), Si pò’ nu iurne (Se poi un giorno, 1983), Tante ca pàrete notte (Tanto che sembra notte, 1986),el’antologia Poesie tursitane (1985), quindi Un pianto nascosto. Antologia poetica 1946-1983, del 1986. In tali numerose opere Pierro prosegue lo scavo archeo-antropologico e mitico del senso ultimo delle proprie radici e dell’intera esistenza, attraverso la raffinata essenza dei ricordi, dal minuto paesaggio interiore al crepuscolare (ma non decadente) ambiente lucano per lui oltremodo familiare, il tutto connotato da una coerente e a tratti spiazzante idealizzazione della condizione umana. Pur attratto da altri progetti, si congeda dalle stampe nel 1992 con l’edizione di Nun c’è pizze di munne (Non c’è angolo del mondo), sempre all’insegna della profonda, intensa e autentica ricerca letteraria e umana.
Restano proverbiali e si raccontano le incursioni telefoniche pierriane, pure in ore notturne, per avere la conferma di un termine dialettale sfuggente ed è tuttora vivo il ricordo di alcune donne che lo allattarono infante, quando si temeva che morisse precocissimamente, altri ancora riferiscono della grave malattia contagiosa agli occhi subita da bambino, con il timore che lui potesse restare cieco. Pierro ha lasciato alla Provincia di Matera, che l’ha ceduta in comodato gratuito al Comune di Tursi, la casa familiare e la sua biblioteca contenente migliaia di libri (mentre le “carte” di don Albino e la documentazione, costituita da decine di tesi di laurea, di centinaia di articoli, e di altro materiale disponibile, nel 2004 sono state trasferite all’Università della Calabria per la catalogazione, l’inventario e lo studio, in vista di un più largo utilizzo, anche nella rete on line).
Grazie a lui, la poesia in loco si è popolarizzata, stimolando in molti, forse troppi, l’anelito per le rime e i versi sciolti, alcuni anche interessanti e intriganti come quelli apprezzabili di Rosa Maria Fusco (1953), per un breve periodo animatrice del “Premio nazionale di poesia A. Pierro”), ma il Vate Tursitano non ha degni eredi, non può averne. Ne è riprova anche la difficile gestione “politica” dell’enorme eredità culturale postuma, oscillante tra slanci effimeri e generose smanie di grandezza. Pur non essendo (stato) amato, è certamente molto rispettata e stimata la sua memoria. Il Poeta rappresenta un unicum irripetibile che resisterà alla dura prova del tempo. Il futuro potrà forse minarne la notorietà, ma neppure minimamente scalfire l’intrinseco valore potente di un caso letterario senza precedenti.
In modo innegabile e nella contemporaneità, la Città di Tursi è (ritornata) positivamente alla ribalta mondiale, confermata dall’incremento significativo del turismo culturale, proprio per aver dato i natali a Pierro. Sarebbe giusto ricambiare con un sentimento di tangibile riconoscenza illimitata, magari dotando ogni nucleo familiare tursitano almeno di un libro del Poeta, per carezzare una pagina di tanto in tanto, ma potrebbe bastare anche un fiore sulla sua tomba, eccezionalmente una volta all’anno, fino al prossimo millennio. Se per i comuni mortali sia troppo oppure poco non saprei, comunque non può meritare di meno chi ci ha donato il respiro sublime della Poesia.
Tursi, 17 luglio 2008 Salvatore Verde ©