L’estate agevola la lettura, se si vuole, anche quella “impegnata”. Solitamente recupero quei libri messi da parte durante l’anno lavorativo o da poco acquistati. Una sollecitata casualità mi ha fatto incrociare tre libri che affrontano nell’arco di cinque anni (2010-2015) lo stesso argomento, ovvero la vicenda dei “fidanzatini di Policoro”. Mi riferisco ad Aspettando… Giustizia di Angelo Jannone (Secop edizioni, 2015, p. 207, euro 13) e Niente è come sembra di Tommaso Carbone (Rusconi libri, 2012, p. 233, euro 9.90), che impongono la rilettura del libro di Andrea Di Consoli La commorienza. La misteriosa morte dei fidanzatini di Policoro (Gli specchi Marsilio, 2010, p. 123, euro 13).
Si sa che i giovani Luca Orioli e Marirosa Andreotta, rispettivamente di anni 20 e 21, furono ritrovati morti, nudi nel bagno della casa di lei, la notte del 23 marzo 1988, nella cittadina Jonica lucana. Tutti gli esperti intervenuti, coinvolti e sollecitati parlarono subito e si sentenziò dopo, in modo definitivo, di incidente domestico (elettrocuzione o folgorazione oppure da intossicazione di monossido di carbonio).
Ma allora perché i fiumi di parole a qualsiasi livello di (in)competenza, numerosi articoli della stampa locale, regionale e nazionale, più o meno lunghi capitoli in pubblicazioni di denuncia e ampie finestre nei variegati programmi televisivi d’inchiesta, fino a puntate monotematiche, oltre a diverse perizie e altrettanti pronunciamenti delle autorità giudiziarie? Tutti matti? Non credo affatto.
Qualcosa di certo non torna nella mente di chiunque si avvicini alla fatale circostanza, e questo alimenta da sempre opinioni disparate, dubbi, perplessità e finanche certezze, opposte. È mia intima convinzione, proprio considerando la distanza di decenni, che si potrà arrivare alla verità reale dei fatti, solo in due casi:
– una fortunosa rivelazione, magari un semplice errore purché evidente e sostanzioso di qualche protagonista, apparendo più improbabile una implicita ammissione di colpevolezza (il pentitismo sarebbe una contraddizione in termini e con le insistite archiviazioni sarebbe perfino insensato, se non una confessione in punto di morte), e meno che mai con il lavoro investigativo o di riapertura delle indagini oggi;
– oppure, attraverso la finzione audiovisiva, quella televisiva o cinematografica in particolare, capace di restituirci una verità logica e coerente, magari “suggerita”, che vada ben oltre quella processuale. Se il realismo non basta, soltanto la fantasia è in grado di arrivare al cuore e di impattare l’immaginario, con la sua specificità, rendendo al meglio la complessità degli accadimenti con l’accurata ricostruzione visiva, più della meticolosa e immaginosa scrittura, pur se di ottimo livello.
L’arte non ha scopi utilitaristici e meno che mai giudiziari e, alla pari del sogno e della follia, ci libera da vincoli e catene. Il paradosso del fatto di cronaca in questione, come raramente capita, ma soprattutto nei casi di nera irrisolti, è che più si tenta di accreditare una certezza, pure in perfetta buona fede e con seria convinzione, più si alimentano i segreti inspiegabili e in definitiva l’atroce mistero, verso una verità che non sempre è in superficie. Il fondamento di questo ragionare è stato rafforzato in me anche da una prima attenta lettura del “romanzo-verità” del milanese Jannone. Che è un colonnello dei carabinieri in congedo, docente di criminologia alla Sapienza di Roma e membro dell’Osservatorio dei fenomeni criminali all’Università Ludes di Lugano.
Nelle sue avvertenze, scrive: “I fatti narrati in questo libro sono ispirati a una storia vera e basati su atti processuali, nonostante molti dei personaggi secondari e vicende di contorno siano frutto della fantasia dell’autore. Anche alcuni nomi sono stati volutamente alterati per non colpire la sensibilità dei veri protagonisti”. Dunque, non un saggio di scuola e da manuale sugli atti processuali, bensì un racconto misto di agevole lettura, anche di apprezzabile fattura e pregevole piglio psicologico, con una calibrata struttura e ricchezza nella ricostruzione degli “ambienti di caserma”, ottimo nello sviluppo dei dialoghi, proprio come una sceneggiatura di un film (che realizza i salti temporali della narrazione, i capitoli in parallelo simili a un montaggio alternato e il finale con l’Epilogo. Che fine hanno fatto).
Dunque, una impostazione quasi cinematografica, peraltro confermata dalla notevole contestualizzazione degli accadimenti altri, che risente della lezione di Giorgio Scerbanenco e della suggestione di Andrea Camilleri, oltre che della memoria vi(si)va dei tanti film ascrivibili al genere polizziottesco all’italiana degli anni Sessanta-Settanta-Ottanta.
Una descrizione anche qui avvincente per il lettore, che condivide la personalizzazione del bene nel protagonista assoluto, il simpatico e capace capitano Salvino Paternò, alla fine amaramente “sconfitto, ma non perdente” (anzitempo congedatosi dalla Benemerita nel 2013, con il grado di tenente colonnello). Assieme alla squadra di colleghi amici, egli porta a casa risultati notevoli nella lotta ai malviventi del luogo, riaffermando la superiorità dello Stato.
Nel caso dei “fidanzatini”, invece, la crescente ricerca della verità dell’incolpevole Paternò è stata frustrata dalla banale o raffinata inestricabilità del male, inteso sia come oggettiva convergenza di piccoli e grandi interessi nella rete sociale degli asfittici rapporti paesani sia come pregressi errori ed orrori, sciatteria, superficialità e mancanza di professionalità di taluni, invero molti, troppi, nel non aver saputo adeguatamente svolgere il proprio dovere all’epoca dei fatti e anche immediatamente dopo, mentre resiste, nostro malgrado, la impressione di non poter escludere del tutto un complotto ordito da forze chiaramente oscure ai vari livelli.
“Le indagini del capitano Paternò”, e lo dico davvero con intento non ironico, nella letteratura gialla potrebbero perfino proseguire, considerando la felice vena creativa di Jannone, tanto è ben esaltata e caratterizzata la figura dell’ufficiale dell’Arma, che è il vero centro del racconto (ma anche il maresciallo Giuseppe Serio, comprimario, ne esce assai bene, e altrettanto grande è la umana sofferenza di Giuseppe Orioli, padre dello sfortunato giovane).
Comunque, dopo aver riferito i contorni della lotta al temibile clan policorese, con il suo sostanziale smantellamento nel Metapontino, e indicata l’ambigua operazione Turris in ambito tursitano, una pagina investigativa che la storia non esalterà, appare assai circoscritto il legame con la fine dei due giovani, in termini di spazio-pagine, e non sembra accreditare novità assolute rispetto all’analisi della mole degli atti da dominare e digerire. L’ipotesi finale, suggestiva nell’intento di voler suscitare collegamenti, si palesa come un guizzo investigativo estemporaneo, che appare assai debole, anzi inverosimile, proprio sotto l’aspetto del profilo criminologico, ammesso che di duplice omicidio si tratti, come pure sono razionalmente propenso a non escludere.
Nelle pagine espressamente dedicate al caso, meno della metà del totale, l’esperto Jannone ci sollecita la riflessione su alcuni elementi del giallo, già intensamente analizzati dalla pubblicistica e dagli investigatori. Mi riferisco al funzionamento del caldo bagno, al posizionamento dei corpi e degli asciugamani, al valzer delle fotografie della scena del rinvenimento, alla ferita alla nuca di Marirosa, ai limitati squarci delle iniziali imperizie prodotte, al ruolo del pentito cardine e di alcuni avvocati e poco altro sostanzialmente.
Quanto alla immaginifica prospettazione del duplice omicidio da parte di più esecutori, nella sua esplicitazione sembra appena una mera ipotesi, un aleatorio tassello, un puro esercizio tecnico, un astratto tentativo di soluzione, si fa per dire, in una fenomenologia spugnosa. Tanto sembra essere fuori dal mondo reale, senza un credibile e verosimile appiglio, mancando ancora oggi di qualsiasi coerenza con la documentazione esistente e con una sorta di profilo criminologico ipotizzabile.
In questa sede, mi limito a tre aspetti che mi paiono tuttora decisivi: – se i festini ci sono stati, a prescindere dalla vita dei due giovani, perché ignorare la collocazione temporale, soprattutto la fase iniziale che è davvero incongruente rispetto ai fatti in esame?; – perché direzionare univocamente il senso e il significato di una frase scritta dalla ragazza (un segreto da confessare), certamente rivelatrice di uno stato d’animo inquieto, quando si sa che è tipico delle manifestazioni giovanili sovraccaricare la propria emotività tramite espressioni a volte iperboliche, anche quando ci si riferisce a cose meno eclatanti, pur se sintomatiche di disagio interiore?; – il puzzle di incastri prevede una doppia logica, non una sola, dal grande al piccolo e viceversa. Un doppio gioco sottile prevede sempre rischi e tranelli, vendette e depistaggi, gelosie e invidie, potere e sudditanze, ma può davvero imbrigliare tutti coloro che sono coinvolti o soltanto alcuni?
Non si tratta di cercare cose nuove, ma soltanto di guardare con occhio nuovo alla realtà oggettiva di sempre. La verità potrebbe essere sotto gli occhi, di chi la vuole ricercare, a patto di divorziare dalle infatuate tesi precostituite. Se non si tiene conto adeguatamente dell’avanzamento della conoscenza, scaturita dalla letteratura esistente, si rischia di non fare passi avanti, e questo ci allontana dall’obbiettivo di ottenere giustizia, pur continuando sempre ad aspettare. Ma fino a quando?
Salvatore Verde