Il grande documentarista italo americano Anthony Buba (n. 1943), tra i massimi negli Usa, è da qualche giorno a Tursi, in compagnia della moglie Jan McMannis, docente in pensione della Penny State University.
Figlio del calabrese Edward Buba (1916-1997), di Caraffa di Catanzaro, e della lucana Angelina Gentile, 95 anni, emigrata nel 1929, ma ancora iscritta in anagrafe a Tursi (registro Aire, dei residenti all’estero), mister Tony è cittadino onorario tursitano dal 2000, quando gli è stata conferita l’onorificenza assieme al fratello Pasquale Buba (n. 1946), montatore cinematografico (e televisivo) a Hollywood, e abituale collaboratore tra gli altri di Al Pacino e di George A. Romero. Proprio con l’inventore dei film e del genere con gli zombi i due fratelli hanno debuttato nel cinema, alla fine degli anni Settanta.
A distanza di tre anni dall’ultimo viaggio, dunque, questo breve ritorno per una visita privata ai cari cugini di Valsinni, Alfredo Luigi Gulfo (1932) e alla moglie Carmelina Pipino (1933-2016), purtroppo deceduta nei giorni scorsi. Furono loro tra i primi, nel 1987, quando iniziò la ricerca delle origini e delle radici, che lo accolsero con immediatezza e affetto, stabilendo poi un legame duraturo e profondo. Tony e la signora Jan sono stati venerdì a Matera, “città unica al mondo e cinematograficamente notevole”, sabato a Policoro dal cugino Salvatore Gentile, mentre domenica è interamente dedicata ai legami con i parenti di Tursi. Gli ospiti proseguiranno martedì per Bari, poi a Bologna e quindi a Parigi, prima del rientro definitivo.
Padre del documentarismo autobiografico, Buba ha creato un corpus di opere unico, intenso e premiatissimo, chiamato The Braddock Chronicles (Le Cronache di Barddock), sulla sua città, vicino a Pittsburgh, in Pennsylvania, dove sono stati realizzati quasi tutte le sue opere, una trentina tra corti e lungometraggi. In Lightining Over Braddock: A Rustbowl Fantasy (1988, Lampi su Braddock – Una fantasia arrugginita), miglior film al Birmingham International Film Festival, ha fuso documentario, fiction e tecniche sperimentali, sulla morte di una città delle fabbriche. Nel più classico Struggle in Steel: A Story of African-American Steelworkers (1996, Lotta nell’acciaieria: una storia di metalmeccanici afro-americani), ha mostrato facce e voci di persone raramente viste nei media tradizionali. L’ultimo (capo)lavoro è Ghosts of Amistad (2014, Fantasmi di Amistad), onorato di una proiezione anche ad Harvard, per “ristabilire il posto degli africani d’America nella storia”, girato in Sierra Leone.
Con Buba, inevitabile il riferimento alla politica: “Trump è una incognita popolare, Sanders la novità assoluta, la Clinton potrebbe vincere”.
Salvatore Verde