Tutti i dubbi e le incongruenze mediatiche relative alla “più atroce impresa criminale nella storia della Repubblica”. Un lavoro nuovo, senza prendere in considerazione le prove scagionanti i due coniugi, su come le TV hanno raccontato la strage creando disinformazione, con le discrasie presenti tra il racconto mediale mandato in onda per molti anni e ciò che invece risulta dagli atti
Torniamo ad occuparci di uno dei casi mediatici più importanti e famosi nel nostro Paese. E questa volta lo facciamo tralasciando gli elementi di innocenza emersi nel corso del procedimento, ma analizzando tutte le discrasie raccontate dai media fin dal gennaio 2007. Incongruenze, falsi miti e leggende che hanno convinto l’opinione pubblica di una colpevolezza che agli atti non risulta mai chiara e che, soprattutto, hanno fuorviato i giudici statuenti la stessa sentenza di condanna. Anche il segreto istruttorio, quello stesso principio di libero convincimento del giudice, è stato “violentato” dalla pressante opinione mass mediatica che creò colpevoli ed emise giudizi prima di tutti. Non è un caso che ancora oggi siano infatti moltissimi coloro che sostengono con vigoria la certezza, al di la di ogni dubbio, delle tesi che vedono i due coniugi di Erba come gli autori materiali di una mattanza compiuta in circa 15 minuti. Certezze e convinzioni che tuttavia sono smentite dagli stessi atti ufficiali del processo, frutto solo dell’influenza mass mediale avvenuta in tutti questi anni. Perché sono diversi i programmi che fin dal principio assunsero un tenore marcatamente “colpevolista”, avvicinandosi a quanti credono e credevano nella giustezza dell’ergastolo nei confronti dei due coniugi. Di fatti, lo stesso giornalista Nuzzi, lo fece capire sui social quando, dopo le accuse della Bazzi al consulente della prima difesa, il criminologo Massimo Picozzi, il conduttore di Quarto Grado scrisse: «Amiche e amici, l’attacco dell’assassina Rosa Bazzi a Massimo Picozzi va preso come il disperato tentativo di un’ergastolana pluri-omicida di far breccia nel muro del carcere, puntando alla revisione del processo. Signora Bazzi si rassegni questo non accadrà, inutile attaccare persone perbene».
Nessuna oggettività
Brocardo fondante nel lavoro di un giornalista dovrebbe essere la ricerca spasmodica della verità. Una verità informativa scevra da qualsiasi forma di suggestione o di mero complottismo. Ma nel processo mediatico fatto della strage di Erba è avvenuto questo? Per capirlo basta leggere gli atti delle indagini, o considerare le stesse sentenze di condanna statuite nel corso degli anni. Sentenze ricche di aporie, di domande senza risposta come accertato dagli stessi giudicanti che lo trascrissero nero su bianco. E allora, se anche i giudici hanno ammesso nelle sentenze la presenza di dubbi, da dove parte la sicumera esperita sia dalle TV nazionali che dall’opinione pubblica? È proprio qui che ha inizio il lavoro dei media. Un lavoro che se per gli addetti ai lavori è volto ad impedire la diffusione di fake news, di illusioni, ed orientato alla vera informazione, non ha fatto altro che creare invece una manipolazione informativa che si allontana dalla logicità dei fatti dell’11 dicembre del 2006. Una distorsione magari incosciente, ma che col tempo ha finito per creare delle nuove “leggende metropolitane” come già accaduto in passato.
Gli assassini hanno confessato perché sapevano?
Analizziamo quindi la genuinità di quanto raccontato dalla TV, comparando il tutto con gli atti ufficiali di condanna, partendo proprio da uno dei tre capi d’accusa nei confronti del netturbino di Erba e di sua moglie. Quello che probabilmente più di tutti convinse della loro colpevolezza. Le video confessioni, l’elemento su cui più di tutti si è dibattuto. Quelle stesse deposizioni giudicate perfettamente sovrapponibili dalla sentenza di primo grado, ma che d’un tratto, per la Corte d’Assise d’Appello di Milano, divennero piene di inesattezze, per la volontà dei coniugi di lasciarsi aperta una porta per un eventuale ritrattazione (che avverrà soltanto 10 mesi più tardi). Uno dei rari casi in cui due sentenze seppur si smentiscono tra di loro, il risultato non cambi: ergastolo. Eppure negli studi televisivi ci si continua a domandare come gli imputati potessero conoscere i particolari della mattanza. Questo è uno dei quesiti più importanti, poiché il racconto dettagliato (a loro dire) del massacro, non può essere un caso. Ma è realmente così? Davvero i due coniugi hanno fornito un racconto aderente ai fatti accaduti?
In realtà la risposta in grado di delineare un perfetto quadro di ciò che accadde è una sola: la presenza delle foto. Una certezza che si evince non solo dalla lettura degli atti ufficiali (verbale del 6 giugno 2007) ma anche dalla stessa requisitoria in aula del Pm Astori durante il processo di primo grado. A sostegno di questo, vi è poi un ulteriore elemento, un audio scoperto nel 2010 nel quale un giudice diceva ad Olindo durante le fantomatiche confessioni «veniamo alle altre fot…eeeh questioni». Ma c’è di più: analizzando la ricostruzione fornita dagli inquirenti, in quell’appartamento venne staccata la luce dalle ore 17.40 e sarebbe stato impossibile anche per i killer riuscire nel buio pesto indovinare l’esatta posizione dei corpi, dei colori o degli abiti delle vittime, se non guardando appunto delle immagini. Resta da dire che Raffaella Castagna, sua madre ed il piccoletto furono uccisi molto a sinistra della porta d’ingresso, un posto in cui neanche la luce delle scale sarebbe filtrata per illuminare. Ciononostante, per molti programmila questione delle foto non sussiste minimamente.
Quella macchia di sangue
Parliamo ora della macchia di sangue repertata dai carabinieri sul battitacco dell’auto di Olindo. Una traccia definita “pura” non solo nella perizia del professor Previderè, consulente dell’accusa, ma anche dall’ex generale dei RIS di Parma, Luciano Garofano, che non indagò direttamente sulla macchia, ma precisò che non fosse diluita, dunque necessariamente portata dall’assassino. Anche in questo caso la ricostruzione fornita dai media cozza con la realtà dei fatti e dei dati dell’inchiesta. Colui che repertò la traccia, il brigadiere Fadda, già nel febbraio del 2008, affermò in aula di aver provato in un primo momento a rinvenire tracce ematiche attraverso l’utilizzo del Crimescope, ma che questo non fu sufficiente: «Sulla Crimescope, se una macchia è visibile, se non è stata lavata si riesce a trovarla anche con la lampada, mentre se è stata lavata oppure se è stata pulita, non riesce a rilevare niente». Per riuscire a trovare quella traccia ematica fu necessario l’utilizzo del Luminol, ragion per cui, più che di purezza, sarebbe logico pensare ad una diluizione. Inoltre, riguardo alla macchia di sangue, vi è un’altra questione da affrontare: può essere frutto di una contaminazione innocente, perché trasportata dai carabinieri saliti sul luogo della strage, come peraltro affermato dallo stesso Fadda a Le Iene? Soltanto un’idonea analisi BPA (mai fatta!) avrebbe potuto sciogliere ogni dubbio. Ma come evidenziato dettagliatamente da Montolli, nel suo libro Il grande abbaglio – controinchiesta sulla strage di Erba, dal verbale di perquisizione sull’auto di Olindo si evince che i nomi dei carabinieri presenti, siano gli stessi di coloro che prima erano saliti nel palazzo della strage.
La cosa sorprendente di tale questione sarà la deposizione nel tribunale di Como del Luogotenente Gallorini, che affermerà che nessuno dei quattro carabinieri che avevano firmato il verbale, aveva materialmente perquisito la vettura. Operazione, questa, svolta invece da un quinto Ufficiale non risultante nel verbale, tale Moschella, l’unico a non essere entrato sulla scena del crimine. Approfondendo per un attimo il verbale di perquisizione ci si rende invece conto che risultano addirittura quattro nomi, vi è la firma di tre persone, ma l’atto è materialmente svolto da un altro che a verbale non risulta. Difficile credere a cosa sia vero quando un documento ufficiale e importante come un verbale, viene poi smentito sotto giuramento. Perché per quanto sembri surreale, non si parla di una multa per eccesso di velocità, ma di una prova fondante per una condanna all’ergastolo. Nei salotti mediatici nessuno ha mai obiettato nulla a riguardo. Uno degli elementi su cui si è a lungo dibattuto in Tv riguarda invece il fatto che colui che sgozzò il piccolo Youssef fosse mancino come Rosa. Ma si si dimentica di dire, anche in questo caso, che nella relazione autoptica preliminare l’assassino fosse destrimane e che solo successivamente era stato appurato che fosse sinistrorso.
Le testimonianze di Frigerio
Veniamo ora a quella che fu definita a più riprese la pistola fumante della colpevolezza dei due coniugi di Erba. «Un audio importantissimo che davvero scioglierà ogni dubbio», come dichiarato da diversi giornalisti nel corso del processo mediatico di “mala-informazione”. Un file audio datato 15 dicembre del 2006 in cui Frigerio, appena risvegliatosi dal coma, nel descrivere agli inquirenti un aggressore di carnagione olivastra e non del posto, avrebbe detto contemporaneamente «è stato Olindo». Un audio su cui terminò il processo in primo grado, che convinse giudici ed opinione pubblica. Perché se un uomo appena ripresosi da un forte trauma fa un nome ben preciso, allora l’assassino non può che essere quello indicato. In TV ne parlarono per un bel pezzo facendo finta di nulla, ma le cose in realtà andarono in modo ben diverso. Infatti, come esaurientemente spiegato nella sentenza d’appello di Milano: «Si tratta di un “file” digitalizzato e amplificato dalla Corte con il programma Cool Edit 2000 al fine di renderne il contenuto più intelligibile, apportando al “file originale una modificazione senza nessuna intenzione di falsificare scientemente il risultato uditivo». Il processo di primo grado si chiuse dunque con un audio modificato che aveva cambiato la frase “stavano uscendo” in “è stato Olindo”, una differenza abissale che non servì tuttavia a riaprire il dibattimento in appello.
Un palese atto di distorsione di un file utile a fini probatori, venne giudicato come una mera svista. Possibile che a nessuno non sia venuto un dubbio nell’ascoltare Frigerio che faceva il nome di Olindo mentre chiedeva di mettere a verbale la descrizione di un aggressore mai visto dalla carnagione olivastra? Relativamente alla deposizione di Frigerio, si è altresì ignorata un’altra discrasia presente negli atti: quella riguardante il riconoscimento di Olindo durante l’interrogatorio del 20 dicembre 2006. Fu il colloquio decretato come decisivo sia dal figlio che dagli stessi giudici, trasmesso moltissime volte in TV ed entrato indissolubilmente nell’immaginario collettivo. A partire da quella data infatti, dopo che Gallorini gli farà per nove volte il nome del Romano, Frigerio dirà per sempre che l’aggressore fosse Olindo. Ma dall’ascolto delle intercettazioni mai trascritte, ne emergono due scioccanti. Il 22 dicembre 2006, due giorni dopo l’incontro decisivo tra Frigerio e Gallorini, nella stanza intercettata del superstite, giunse il suo avvocato di fiducia Manuel Gabrielli. Venti minuti di conversazione tra l’avvocato e il suo assistito, ove non solo non venne mai fatto il nome di Olindo, ma sembrava addirittura che nessuno sapesse dove sbattere la testa per capire cosa fosse successo la sera del massacro, tanto che il legale chiederà all’uomo di rivivere quella giornata con assoluta calma, sforzandosi di ricordare anche le cose più normali. E invece Frigerio non ricorderà nulla né in quell’occasione, né il 24 dicembre quando, avvertito dai figli dell’imminente arrivo in ospedale dei Pm, dichiarerà di non aver niente da riferire ai magistrati. Anche questo non verrà mai raccontato in TV.
Le ferite di Valeria Cherubini
L’ultima delle prove decisive della colpevolezza, riguarda un ulteriore “dettagliatissimo” elemento della confessione di Olindo Romano, in cui l’uomo raccontò di aver colpito con un coltellino che teneva in tasca la testa di Valeria Cherubini. Come faceva Olindo a sapere con certezza come fosse stata colpita la donna? Ma un tale dettaglio era già presente nell’istanza di fermo rilasciata ai due coniugi, dove c’era scritto che gli assassini avessero usato coltello e corpo contundente. Bisogna altresì ricordare che Olindo confessò di aver colpito la Cherubini con cinque o sei colpi, mentre la donna ne fu attinta da 43, e che ben 8 le fracassarono il cranio. Impresa improbabile con un coltellino. Dopo anni di gogna mediatica, tutte queste incongruenze oggettive raccontate per anni, hanno finalmente prodotto una reazione da parte del pubblico. Tantissimi si sono ribellati a queste versioni a senso unico e sono in molti a non credere più totalmente a quanto rappresentato dai media. C’è voglia di capire semplicemente i fatti, non le opinioni. E ad oggi cominciare a dubitare di questa storia può essere già qualcosa.
Pasquale Castronuovo
Criminologo e sociologo forense