Il matrimonio tra Pomponio Brancalasso e Geronima Manzi è stato, molto probabilmente, uno dei rari tasselli coniugali di eccellenza in epoca moderna, dentro una genealogia nobiliare fondamentale per la storia di Tursi e per i rapporti non proprio intensi e non costanti con Montalbano Jonico, nonostante la vicinanza territoriale tra i due importanti centri a ridosso del Metapontino, separati solo dal fiume Agri ma riuniti dal culto antico della Madonna di Anglona.
Pomponio Brancalassi sposò, l’8 gennaio 1693, la venticinquenne montalbanese Geronima Manzi/Mansi (1671/73 – 27 luglio 1738, “morta a 66 anni”). Da loro sono “nati in costanza di matrimonio” almeno nove figli (elencati qui in odine di nascita): 1- Teresa, che morì improvvisamente a Mont’Albano, aveva 7 anni; 2 – Agnese, afflitta da diabete infantile (malattia allora già nota e diagnosticata, ma non spiegata, nda), morì nel 1710, quando aveva circa 16 anni; 3 – Tommaso (8 dicembre 1696 – 3 marzo 1753, a 56 anni), avvocato e, con altri tre fratelli, storico della famiglia, coniugato con Antonia Giordano (figlia di Felicia Donnaperna e Nicolò Giordano), ebbero undici figli, sei maschi e cinque femmine, una delle quali, Caterina Brancalasso, sposò a 19 anni, Marc’Antonio Arcieri di San Mauro Forte, il 17 gennaio 1761; 4 – Camillo, morì di etticio (o ittero oppure per un morso di un animale) a 9 anni; 5 – Teresa, si spense all’improvviso nel 1712, per una febbre, aveva 12 anni; 6-7-9- Filippo (? – 31 maggio 1764), Carlo e Niccolò, tutti e tre canonici della Cattedrale di Tursi e storici della famiglia Brancalasso; 8 – Francesco, penultimo dei figli, ma di lui non si sa nulla. “I fratelli uterinque congiunti”, tutti dottori, sono gli autori del preziosissimo manoscritto Fedel memoria degli Uomini Illustri, Parenti, Stabili, Urbani e Rurali, Jus, Doti, Ragioni, Servitù, Prelazioni, Cappellanie, Benefici e sue Rendite, Notizie antiche appartenenti alla gentilizia famiglia BRANCALASSO, che ora si rappresenta dalli fratelli, Dottor Don Tommaso, Dottori Canonici della Cattedrale: Don Filippo, Abate Don Carlo e Don Nicolò Brancalasso, registrata nel 1744 (i riferimenti sono estesi dal 1443 al 1797).
Il testo, pur con qualche inevitabile ma lieve imprecisione, incoerenza e contraddittorietà, è cronologicamente articolato e complesso, ricco di nomi e di storie molte delle quali inedite, oltre che stracolmo di luoghi, titoli di proprietà e di rapporti pubblici e privati; talvolta i legami e i nessi sono sorprendenti, come pure gli atti e i fatti, nelle relazioni più o meno palesi, poiché disvelano con disarmante sincerità, sia pure di parte, gli intrecci nobiliari e gerarchici non soltanto tursitani, fino a portare alla luce retroscena e intrighi che appaiono ai limiti del mistero. Dopo parecchi anni di studio accurato, di analisi e comprensione, il documento (purtroppo ancora inedito) è stato trascritto mirabilmente da Ambra Piccirillo, studiosa di famiglia emoglie del medico Ciriaco Sciarrillo Brancalassi, depositari del testo originale e tra gli eredi oggi ad Ancona, ma altri discendenti sono anche a Tursi. A parte gli agganci alla tradizione orale, il testo è supportato maggiormente da atti notarili, esplicitando dal principio che “per fedel ragguaglio a posteri e successori della prefata famiglia fa d’uopo che si ricorri per far lor proprio vanto agli antenati ed huomini illustri: quindi per quanto si è stentato ricercarne dagli antichi si ave in un pubblico istrumento che si conservava dal Notaio Nicol Angelo Vitella, ed ora dal Notaio Pietro Nocito: circa l’anno 1500 viveva il Don Quintiliano, il quale fu aggregato ne li trentasei famiglie nel seggio nostro e qui venne il reggente Doria, il quale apparse da un atto e parlamento fatto che si conserva dal Signor Donnaperna ove era antico nobile e nel Protocollo di casata Deti, ora si conserva dal notaio Pietro Nocito…”.
Sul numero dei figli della coppia ©
Sul numero dei figli di Ponponio e Geronima, occorre risolvere una piccola incongruenza. Nelle stesse memorie degli storici di famiglia e nel testamento dell’arciprete Don Gio: Andrea Brancalasso (29 gennaio 1669 – 23 settembre 1725), è chiaramente indicato anche il nome di Caterina tra i figli della coppia. Si tratta di una adozione, di una figlia illegittima o potrebbe essere la quarta figlia oppure è il secondo nome di una delle tre figlie: Teresa, Agnese e l’altra Teresa? Non è chiaro. D’altronde, non ci possono essere dubbi sulla verità della esistenza di Caterina, poiché gli accadimenti sono contestuali anagraficamente alla vita dell’arciprete e degli stessi storici, cioè dagli inizi del 1700 in poi. L’arciprete, infatti, la cita almeno tre volte nelle sue ultime volontà: “ – Item jure legati pro una via tre vacche, cioè due a Caterina, mia nipote, figlia di Don Pomponio, e l’altra ad Elionora altra mia nipote figlia del Don Francesco Antonio: mio fratto consanguineo atteso è mia volontà. – Item jure legati lascio, e lego a detta Caterina mia nipote un vestito di sajetta di Milano col suo giuppone e sei palmi di drappo ultimamente venuto da Napoli atteso così è mia volontà. – Item jure legati alla signora Geronima Manzi mia cognata carlini quindici il mese da darseli da detti miei Eredi sua vita durante tanti, e non altrimenti. – Item voglio, che premorendo detti miei Eredi, come sopra chiamati, ad esso Don Tomaso mio nipote senza figli degni e naturali, mascoli, e femine ex proprio corpore provenienti in quello, che vi sarà in detta mia eredità o che vi resterà debbiano succedere dette Caterina ed Elionora legatarie loro figli e descendenti”. E così anche gli storici di famiglia, nel documento delle memorie genealogiche, quando indicano “nella dote di Caterina, figlia maritata in Pisticci, Geronima cacciò ducati cinquecento di contanti forse lasciati dal Don Pomponio…”. Di quei denari Geronima non fece mai menzione a nessuno quand’era in vita, pare ragionevole dedurre che a rivelarlo sia stata proprio la figlia.
Genealogia essenziale del Brancalasso e Manzi/Mansi ©
Dal contratto matrimoniale, il Brancalasso ebbe in dote duemila ducati, “com’apparisce dalli capitoli matrimoniali initi nell’espressato dì ed anno, come depositati e copiati”. Pomponio era il primo figlio Ippolita Bitonte, detta Popa, e di Don Camillo Brancalasso, vedovo di Elionora o Dianora Leonardis, lui primogenito di Delica Picolla e Gio: Domenico Brancalasso, sposi nel 1606, quest’ultimo figlio di Lionarda Di Leo e dell’avvocato Gio: Brancalasso; Delica era la terzogenita del matrimonio, celebrato nel 1580, tra Andrea Picolla e Grazia Donnaperna, già vedova di Francesco Antonio Picolla.
Pur diffuso in tutta Italia, il nobile cognome Manzi/Mansi (tra le numerose varianti anche Manso) qui individuato e al quale si riferiscono i documenti, si colloca tra le più antiche configurazioni familiari, non soltanto del Sud, e la collocazione filo spagnola potrebbe suggerire un arrivo almeno ai primi decenni del XVI secolo. Geronima proveniva dalla terra di Mont’Albano (Montalbano Jonico, in provincia di Matera), figlia del Signor Francesco Manzi e Fulvia Magno/Alegno; aveva due fratelli, il dottor Signor Don Pietro Manzi e il Cavaliere frate Giuseppe Manzi dell’Ordine Geresolomitano di Malta, Frate Cappellano di Malta, e nipote di mons. Antonio Manzi, Vescovo di Nicotera,e del Commendatore Fra’ Gio: Domenico Manzi.
Nell’Archivio della Biblioteca Rondinelli di Montalbano Jonico, è citato sia il notaio Pietro Manzi, in un atto del 10 settembre 1657, sia la “trascrizione autografa dell’arcidiacono Oronzio Bilancia dell’atto di morte del vescovo Antonio Mansi, nato in Montalbano intorno al 1642 e morto in Nicotera, sua sede episcopale, il 29 magg. 1713”. A parte la dualità persistente (z/s) del cognome, non sussistono dubbi sul fatto che Mons. Antonio Mansi, che “nacque intorno al 1643 e fu abate e notaio apostolico”, come si trova in qualche ricerca, sia lo stesso monsignore, poi vescovo.
In gioventù Geronima si mantenne in buona salute, come detto partorì forse più di nove figli, fu donna prudentissima e tenace, “vera discepola della suocera Ippolita Bitonte, con la quale si mantenne sempre in pace ed in armonia, di buona vita e di ottimi costumi”, restò vedova per la morte del marito Don Pomponio, quand’era lui prossimo ai cinquant’anni di età. Saggezza, prudenza e giudizio caratterizzarono la sua vita, “e così da vedova portava con tutta attenzione il peso della casa, e particolarmente sempre ha conservato le cose antiche di casa, visse sin all’anno di sessantasei incirca, fece il suo testamento servato che ancora chiuso si conserva nella scheda del Notaio Gaetano Nocerito, dal quale si conserva biglietto di carlini venti, o venticinque per l’apertura firmato di sua propria mano, fatto un’anno prima della sua morte; e così munita di tutti i sagramenti rese l’anima al creatore nelle mani di Don Filippo Spadetta ad ore dieci otto a 27 luglio 1738, e lasciò molti raccordi alli suoi figli per la pace, e conservazione della famiglia, e morì soddisfatta per aver messo tutti li figli Dottori e Canonici ed in Stato”.
Donna accorta, intelligente e discreta, amministrò i beni con parsimonia, possedendo molto denaro contante in casa, senza mai condividere con altri familiari le sorti delle finanze personali e del coniuge, “di che non fece menoma menzione ne in vita ne in morte; convien però confessare che per la sua prudenza e giudizio seppe conservare detto danaro e forsi somma superiore”. Il legame affettivo con Popa Bitonte è maturato negli anni e nel destino, quando la suocera era già vedova da moto tempo, dunque ben oltre quello tradizionale tra suocera e nuora, forse anche perché entrambe donne di origini non tursitane. Non solo per questo, Geronima fu tra le benefattrici della Cappella di famiglia di Santa Maria Le Grazie, con “ducati dieci per tre messe l’anno da celebrarsi da Cappellani se siano della famiglia o da suoi eredi per esser Madre della Famiglia (Istromento per Notar Lionardo Pasca a 25 Gennaio 1728)”. Quando era in vita, con atto notarile lasciò venti ducati venti di capitale alla “Chiesa Madria della Terra di Montalbano sua Padria per l’annuo suo Anniversario in ogni 27 di luglio in perpetuo, e già con tutta puntualità si celebra nello stabilito giorno, e altresì sta notato a librone, ed a Tabella, e la messa cantata si celebra nella Cappella del Paradiso fondata da suo zio Ill.mo Don Antonio Manzi Vescovo di Nicotera”.
Il Sovrano Militare Ordine di Malta e Frà Gio: Domenico Manzi/Mansi, poi Commendatore di Santa Maria di Picciano ©
Geronima Manzi ebbe uno zio carnale, Frà Gio: Domenico Manzi (1622? – 1710), Commendatore e Vicepriore del Sovrano Militare Ordine di Malta (anche Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta o semplicemente Ordine dei Cavalieri di Malta / Ordine di Malta, talvolta Ordine di San Gio: di Malta; era di fatto erede dell’antico ordine dei Cavalieri Ospitalieri Gerosolimitani, fondato nel 1048 e reso sovrano il 15 febbraio 1113 da papa Pasquale II; oggi abbreviato in SMOM, dal quale dipendono 6 Gran Priorati e 48 Associazioni nazionali, con finalità assistenziali, canonicamente dipendente dalla Santa Sede). FràGio: Domenicofu il primo (della famiglia a far parte dell’ordine religioso cavalleresco, nda) a fondare la detta casa, celebre nella dottrina, dabbene, uomo d’onore e stima, per le sue eroiche azioni e costumi fu il più ben voluto e rispettato dell’Ordine di Malta”, dove era vice, “stava al lato”, di mons. De Cardinas e di Frà Gregorio Garafa/Carafa (Castelvetere, oggi Caulonia, in provincia di Reggio Calabria, 17 marzo 1615 – La Valletta, Malta, 20 luglio 1690), assunto alla suprema dignità diGran Maestro del Sovrano Militare Ordine di Malta, dal 1680 alla morte, dopo Nicolas Cotoner (Maiorca, 1608 – Malta, 29 aprile 1680), Gran Maestro, dal 1663 al 1680, a sua volta successore del fratello Fra’ Raphael Cotoner (1660-1663).
“Ma per far sapere ai posteri – scrivono i quattro fratelli storici di famiglia – qual fu l’integrità di questo Gran Eroe”, occorre ricordare, esemplarmente, che alla morte del Gran Maestro Garafa, questi aveva dichiarato nel suo testamento che pochi zicchini stavano nella cassa / in possa del commendator, ma Frà Gio: Domenico Manzi, sorprendendo i confratelli, depositò nelle casse dell’Ordine di San Gio: settantamila zicchini, “incogniti a tutti” (non è chiaro, però, se fosse una propria donazione oppure, com’è più probabile, una somma derivante dall’oculata gestione di fondi a lui personalmente affidati negli anni). Quindi fu promosso quale “Segretario della Lingua d’Italia”, vale a dire che tutti i Commendatori, Cavalieri e Cappellani dell’Ordine “stavano sotto il suo dominio, e anche tutte le Grazie Commende, punizioni, benefizii, doveano passare per mano della sua Persona”. In tale veste e in quello stesso periodo promosse suo fratello, “per il suo gran merito”, mons. Don Antonio Manzi quale Vicario generale al Vicariato di Malta e poi al Vescovado di Nicotera e promosse altresì alla Commenda Fra’ Giuseppe Manzi, suo nipote e fratello della signora Geronima.
Morto, dunque, il Gran Maestro Garafa/Carafa, ci fu il concorso per la successione al Priorato di San Giovanni e vi parteciparono Frà Gio: Domenico e uno spagnolo, che nei mesi successivi ebbe la meglio, favorito da un autorevole appoggio. Il documento non chiarisce qui alcuni passaggi, poiché il successore di Garafa/Carafa fu di origine francese, Adrien de Wignacourt (Francia,1618 – La Valletta, Malta, 4 febbraio 1697), il quale, dopo una brillante carriera, divenne Gran Maestro dell’Ordine di Malta, proprio dal 1690 alla morte (è sepolto nella Concattedrale di San Giovanni), in tale ascesa favorito forse dalla lontana ma sempre autorevole eredità e memoria dello zio Gran Maestro Alof de Wignacour (1601 – 1622). Dopo di lui arrivòlo spagnolo Ramon Perellos y Rocaful (Valencia, 1635 – La Valletta, Malta, 1720), notevole Gran Maestro del Sovrano Militare Ordine di Malta, dal 1697 alla dipartita. Ebbene, si può formulare una ipotesi aggiuntiva attenendoci ai documenti, nel senso che si può pensare anche alla possibilità per Frà Gio: Domenico di essere (nuovamente?) in corsa per la carica di Gran Maestro, “superante dal competitore che era portato dall’impegno del Gran Maestro(al tempo di) Ramon Perellos.
La legittimazione deriva dalla stessa successione cronologica dei Gran Maestri: Nicolas Cotoner (1663-1680), Frà Gregorio Garafa/Carafa (1680-1690), Adrien de Wignacourt (1690-1697), Ramon Perellos y Rocaful (1697-1720). Un esito dell’avvicendamento che lasciò una comprensibile amarezza, “e pure per non restar affrontato il detto Gran Maestro cedette (ad altri) il detto Priorato di Malta (“l’organo preposto all’amministrazione dei possedimenti dell’Ordine dei Cavalieri di Malta nelle regioni”), ma poi pentitosi ancor d’aver escluso il gran merito del detto Frà Gio: Domenico lo chiamò segretamente e gli disse “non si accollerasse”, poiché lo avevano destinato ad altri incarichi elevati e dignitosi, e quello con volto sereno e piacevole li disse “Esimio Signore mi contento solo della sua grazia”. In realtà, ribadiscono i quattro autori del manoscritto, motivo e causa della esclusione dal massimo grado della carriera nell’Ordine di Malta, fu l’ascesa episcopale del fratello, da lui in qualche modo favorita da Vicario generale di Malta a vescovo in Calabria.
“Espressa causa d’esclusione fu il motivo a promuovere al Vescovato di Nicotera suo fratello” mons. Antonio Manzi, “che in Malta avea tutte le Agenzie dei Commendatori Italiani e ben si le dava alla sua Corte, come appariscono da tanti libri contabili che si conservano nello studio del dottor Luca Quinto”, marito di Veronica Manzi, cugina in secondo grado di Geronima e della famiglia Brancalasso. Tra le altre opere realizzate e incompiutedi Frà Gio: Domenico Manzi, quella più celebre è intitolata “Instruzione per i Cappellani delle Galere della Sacra Milizia dell’Ordine di San Gio: Gerosolomitano: dal Commendatore Frà Gio: Domenico Manzi Cappellano Conventuale dell’Ordine medesimo in questa prima idea formata, et a profitto dei Reverendissimi sacerdoti e religiosi, suoi fratti con ogni rispetto proposta”. La lettera, non si ha certezza se fosse stata già pubblicata, è dedicata “all’Illustrissimo Dottor Monsignor Francesco Pietro Viani, Priore generale dell’Ordine di San Gio: Gerolosomitano”.
Si tratta di un’opera “piena di dogmi e di morali dottrine confacenti a tutte le istruzioni da farsi nelle galere e fu stimata assai utile a detto Ordine; se fusse data alle stampe colà non si ave memoria, ma bensì copia originale scritta di proprio pugno si rattrova nel nostro studio”. Lo scritto “che è in foglio, di carattere proprio che vince la stampa nel legerlo”, fu portato a Tursi da Tomaso Brancalasso, dopo un triennio a Nicotera, permanenza interrotta a causa della morte del vescovo mons. Antonio Manzi, che lo aveva voluto con sé. Frà Gio: Domenico Manzi, “questo Gran Eroe, raccolse libri interi dei decreti dei Congressi, del Concilio e di voce Romana e si veggono le loro decisioni nelle cause…” (materiale allora conservato tutto nello studio del citato dottor Luca Quinto). Alla fine, “carico d’onori e al massimo di tutte le doti dell’animo, dopo aver posto in splendore la sua casa di Mont’Albano”, morì a 87 anni, quand’era “Segretario della nazione italiana” e Commendatore di Santa Maria di Picciano, in Matera, e di Maraggi (?), in Lecce.
Monsignor Don Antonio Manzi/Mansi/Manso, vescovo di Nicotera ©
Altro “zio carnale” di Geronima fu, appunto, Monsignor Don Antonio Manzi (1642/43 – 29 maggio/novembre 1713), “uomo dotto e di santa vita”. Prima Canonico della Cattedrale, poi, per diciotto anni Vicario generale nell’Isola di Malta, in seguito anche vescovo (in quella cronotassi dei vescovi è mons. Antonio Manso, O.M. 1° ottobre 1703 – novembre 1713 deceduto) per dieci anni dell’antica diocesi (eretta nel VI secolo) di Nicotera in Calabria (nel 1973, le Diocesi di Nicotera e di Tropea, già unite fra loro aeque principaliter dal 1818, sono state unite in persona episcopi alla Diocesi di Mileto). A Nicotera, mons. Manzi fece il suo Sinodo, “che si conserva nel nostro studio, ornò la sua Cattedrale con famosi utensili ed eresse una Cappella di marmo colle sue imprese ad onore del Santissimo Sacramento dentro la sua Cattedrale; caritativo anche affezionatissimo, della sua casa e vi mandò molti argenti e galanterie; fondò la Cappellania del Patrocinio nella Madria Chiesa di Mont’Albano, e la dotò con buone rendite chiamando per cappellani la linea mascolina e femminina del Signor Francesco Manzi, suo fratto, tra i quali è la famiglia rappresentante, quale succede doppo la morte di Don Giuseppe Lauria e Don Giuseppe Battista Chiaradio nominati dal fondatore; il tutto apparirà nella memoria di detta Cappellania che si promette a farsi”. Monsignor Antonio Manzi venne a Tursi da prelato “ed ebbe in questa casa tutti gli onori ed applausi della città ed andiede per poco tempo a divertirsi in sua Padria di Mont’Albano”. Quand’era nella sua città diocesana in Calabria, chiamò il giovanissimo Tomaso Brancalasso, “mandossi a pigliar Tomaso allora figliolo”, il quale “con tutto fasto si portò in Nicotera sotto la sua educazione e lo trattò con tutta la convenienza si dovea”. La permanenza si protrasse per circa tre anni e sarebbe durata ancora, ma fu troncata dalla improvvisa morte del vescovo. Nel suo testamento, mons. Antonio Manzi lasciò al giovane “molti libri legali, canonisti e li testi canonici ed altri varii; e con questi soli libri se ne ritornò il Dottor Tomaso nell’età d’anni 19”.
Frà Giuseppe Manzi, primo dei due fratelli di Geronima ©
Frà Giuseppe Manzi e il Dottor Pietro Manzi erano i due fratelli di Geronima Manzi, perciò tutti nipoti del Commendatore Frà Gio: Domenico e del Monsignore Antonio Manzi. Frà Giuseppe Manzi (1676? – 1711) fu “un onorato Frà Cappellano sacerdote” e per sei anni girò le galere italiane e spagnole (“fè le carovane da sei anni sopra le galere”), ottenne una Commenda nella Spagna ed altre pensioni (appannaggi) superiori alla somma di 700 ducati. Attaccatissimo al suo paese natale, anche in questo nobile sentimento si mostrò grand’uomo, infatti cominciò a costruire e a ingrandire la casa, abbellendola con i più vari utensili ed ornamenti “li più forastieri”, ovvero quadri, oggetti di studio, argenterie “e ogni altra galanteria necessaria per addobbar un palazzo cavalleresco, facette negozii, diede principio al quarto superiore con gradiata ed ora pure è il migliore di Mont’Albano”.Lo stabile fu costruito progressivamente e “s’avanzava a periodi, tanto per la buona direzione quanto per l’entrade fattesigli e quanto ancora per tutto il commodo teneva e sarebbe stata la casa maggiore della Provincia tanto negli onori avuti dall’Ordine di Malta quanto in ricchezze”. Nel 1700 fu abitata da Margarita Manzi, nipote di Frà Giuseppe, il quale “colla croce di Malta in petto”, veniva sempre a Tursi, in visita alla sorella Geronima, essendo legati da profondo affetto. “Si tratteneva a lungo nella casa di nostra madre – ricorda uno degli storici di famiglia – essendomi ancora in memoria del suo viso non tanto dissimile dal suo ritratto… e portava uno schiavo negro catenato d’argento”. Ma poiché le cose del mondo sono momentanee, intempestiva ed immatura fu la sua morte causata da febbre acuta, quindi munito di tutti i sacramenti, passò nell’altra vita a 35 anni, con un brevetto di Commendatore nel suo capezzale; fu seppellito davanti alle cappelle “del Patrocinio Inquadrante delle linee femminine di Manzi”.
Secondo fratello di Geronima fu il Dottor Pietro Manzi ©
Il Dottor Pietro Manzi (? – 7 ottobre 1717), l’altro fratello (forse notaio) di Geronima Manzi, ebbe per moglie la Signora Donna Anna Monellis, primaria gentildonna di Craco. La coppia ebbe più figli, ma solo tre femmine sopravvissero:Margherita, Veronica e Gellidonia. Don Pietro Manzi morì a Mont’Albano, ma “fu a Tursi per più mesi a prender aria e stava in casa assistito da medici, mentre soffriva l’infermità d’Etticia, onde fece testamento (alla presenzadi uno dei fratelli Brancalasso, autori del documento) in Mont’Albano e munito di tutti i sagramenti morì nel giorno della Madonna del Rosario”.
La loro figlia Margherita Manzi, sterile, si maritò col Don Signor Gio: Battista Fiorentini e abitava nel famoso palazzo paterno. “Donna prudente ostentata e distinta ed altrettanto di buona vita, costumi ed il marito li porta tutto l’ossequio ed osservanza e sarà nell’età di quarantacinque incirca (nel 1744)”.
L’altra figlia Veronica Manzi sposò il Don Signor Luca Quinto, entrambi viventi (nel 1744) a Mont’Albano, “primo nobile della terra di Mont’Albano, costando a me di aver osservato una bolla della loro Cappellania in data dell’anno 1552 ove s’asserisce: Nobilis Vir Artusius Quintus; sta bene in beni di fortuna ed è la casa la più fondata di territorii nella detta terra di Mont’Albano, ma l’accrescimento dipende ed è dipeso dalla dote e posizione della sua moglie Veronica Manzi e sta colla reciproca sostituzione della robba, palazzo ecc. che ora possiede la Signora Margherita Manzi, sterile, del Dottor Gio: Battista Fiorentini da dividersi coll’altra sorella Gellidonia di Montefano”.
A Montalbano Jonico, il Palazzo Mansi, poi Cerulli dal 1770, oggi Vitacca, ha una indubbia rilevanza storica, segnalata come merita pure dal web. Il diciannovenne Re di Spagna Carlo III di Borbone/Carlo Sebastiano di Borbone (Madrid, 20 gennaio 1716 – 14 dicembre 1788), nel suo viaggio a Palermo per l’incoronazione (come Re di Sicilia), sostò nel palazzo dal 21 al 23 gennaio 1735. In ricordo perenne di quella reale presenza, su una facciata dell’abitazione (quella di corso Carlo Alberto) è stata murata, nel 1896, una lapide in marmo.
L’ultima figlia di Pietro Manzi e Anna Monellis, Gellidonia Manzi, fu coniugata nelle prime nozze con Don Signor Filippo e nelle seconde con Don Ovidio, entrambi di quella primaria famiglia delli Signori Cerbasi. Il secondo marito fu “fidele commessario della ricchissima casa Cerbasi in Montefano (o Montesano?) e del Signor Antonio Cerbasi, famoso nella città di Napoli, la casa del quale era frequentata dai familiari e altri signori e dall’arcivescovo mons. Pignatelli (con il quale erano in rapporti epistolari), “in carteggio per la speranza del suo gran indulgente a sacerdote”. Infine, dopo aver lasciato ad ognuno “robbe e particolari galanterie d’oro e d’argento”, fece il suo testamento (che i quattro fratelli storici osservarono direttamente), “erigendo un Monte, come già sta eretto per doti, privilegii, ed altre contribuzioni di rimarco per li suoi discendenti della famiglia Cerbasi della quale li figli e figlie della detta Signora Gellidonia ne hanno partecipato e ne partecipano e parteciperanno mundo durante, e li sacerdoti di detta famiglia saranno i Priori di una Collegiata eretta (documento visto dai citati storici) con pingui rendite ed altri beneficii”. Conseguentemente, anche le tre sorelle Manzi sono in secondo grado di consanguineità con la famiglia Brancalasso (e i loro rispettivi figli sono in terzo grado), derivante “dallo stipite materno cioè dalla Signora Geronima Manzi, madre commune”.
Salvatore Verde ©