Un’attenta ricognizione degli stemmi gentilizi delle antiche famiglie nobili di Tursi, conferma quanto sia andato disperso nel corso del tempo, essendo davvero troppo, anche in senso ampio e più generale. In totale sono meno delle dita di una mano i blasoni sopravvissuti fino ai nostri giorni. Perfino la moltitudine dei nuclei familiari importanti non è riuscita a salvare dall’oblio e dalla distruzione l’arme[1], ovvero il segno della propria identità genealogica di dinastia o casata e della sua immediata riconoscibilità, in pratica il significato dell’appartenenza alla specifica linea storica. Eppure il ceto dei nobili tursitani era consistente già dal XVI secolo, essendo una cinquantina i rappresentanti acclarati, tanto che ne accennò perfino papa Paolo III (1468-1549, pontefice dal 1534 alla morte), nella bolla di trasferimento della diocesi da Anglona nel 1546, quando Tursi acquisì lo status di Città, riconoscendola assai popolata e con molti nobili. E tale situazione socio-demografica rilevante si è protratta per oltre un secolo, in pratica fino agli anni della peste (1656-58), come riferito dall’autorevole Antonio Nigro[2](Tursi, 1764 – 19 maggio 1854), medico e archeologo, oltre che massimo storico tursitano.
Tuttora sono di complessa, suggestiva e intrigante evidenza solo gli stemmi dei Brancalasso, dei Donnaperna e dei Panevino (quello dei Basile non è propriamente uno stemma, ma un’insegna araldica in materiale lapideo piuttosto antica, che rimanda forse al tempo delle Crociate). L’ordine della citazione non è casuale ma rispecchia quello del dominio, del controllo e della potenza reale sul territorio, senza dimenticare, nello scorrere degli anni, almeno gli Andreassi e Asprella, i Calabrese, Camerino, Capitolo, Di Pizzo, Ginnari, Giordano, Latronico, Margiotta, Panevino, Picolla, Margiotta, Santissimo, Santoro, tutti nuclei importanti e ricchi. Se la genealogia dei Panevino si afferma dal XIV secolo nella vicina Puglia, prima dell’approdo tursitano, i Brancalasso arrivano qui dalla Lombardia, dopo una tappa più o meno lunga in Campania nel secolo successivo, mentre i Donnaperna raggiungono Tursi dal milanese nella seconda metà del XVI secolo. I due nuclei (Brancalasso e Donnaperna) avevano ascendenze militari di un certo valore ed entrambi erano originariamente collegati ai Visconti, fedeli al del re di Spagna e al servizio dei Doria di Genova, duchi di Tursi.
Lo storico Rocco Bruno[3](Tursi, 5 gennaio 1939-6 gennaio 2009) ha scritto che i facoltosi Donnaperna si insediarono nel territorio agri-sinnico “agli inizi del 1600… con Giulio Cesare Donnaperna, il capostipite a Tursi, nominato colonnello di fanteria spagnola in data 4 maggio 1593 con patente del re Filippo II, il quale nel 1603 sposò Virginia dei nobili Panevino… ”. Ritengo, invece, che si debba retrodatare l’arrivo a parecchi anni prima. Il nucleo, infatti, era già consolidato forse da qualche decennio, comunque prim’ancora di un atto del 24 marzo 1574, del notaio Agostino Margiotta di Tursi, recuperato dalla grande archivista pugliese Rosanna D’Angella[4] (Canosa di Puglia, BT, 1981), quando il magnifico Antonio Donnaperna di Tursi acquistò dai nobili Antonio Panevino e Diego Panevino, fratelli, al prezzo di cinquanta ducati “un uliveto con terreno boscoso e incolto con una grotta, sito in territorio di Tursi in contrada ‘de Rascho’, confinante con i beni del magnifico Paolo Panevino, con ‘il fosso seu vallono’, con altri beni di Antonio e Berardino Donnaperna e con quelli del nobile Giovanni Antonio Panevino”.
Difficile pensare al trasferimento in Lucania con qualche titolo nobiliare già posseduto, poiché i signori del ramo locale dei Donnaperna, che è stata la famiglia di Tursi storicamente più titolata in assoluto, diverranno “Marchesi di Colobraro (“Don Nicolò Donnaperna comprò il feudo il 29 marzo del 1734, diventandone barone”, Bruno R.), Baroni di Pomarico (acquisto perfezionato nel 1771, Bruno R.), Calvera (“titolo acquistato all’asta nel 1732 da don Giuseppe Donnaperna“, Bruno R.–Mazzilli B), Teana, Carbone, possessori delle tenute di Scanzano e Caprarico (di Tursi)”, dunque senza titolo alcuno esterno alla Basilicata. Al contrario, i Brancalasso solo nel XVIII secolo acquisteranno il titolo di Baroni di Episcopia, piccolo centro del potentino, lungo il fiume Sinni, dove non lasceranno alcuna traccia e non andranno neppure. Per gli scherzi della storia e per gli accadimenti paradossali che talvolta si manifestano nella vita, oltre due secoli dopo toccherà a un ristretto gruppo della nobiltà locale, capeggiato dal locale Barone Brancalasso, garantire con atto notarile la pregressa origine nobile dei ricchissimi Donnaperna, ormai non più nell’auge della potenza. Il 31 agosto 1796, infatti, con atto del notaio Vincenzo Matarano[5] di Tursi, “il barone Giannandrea Brancalasso, padre Michele Sabarese, preposito dell’Oratorio S. Filippo Neri di Tursi, il dottore Gaetano Panevino, dottore Filippo Capitolo, dottore Nicola Giordano, dottore Marcantonio Giordano, dottor fisico Biagio Andrea Picolla, dotttor medico Tommaso Catanzaro e il magnifico Lazarino Rocco, attestano l’antica nobiltà della famiglia Donnaperna di cui gode almeno dal XVII secolo (l’atto comprende l’albero genealogico del ramo primogenito)”. Un altro atto del notaio Vincenzo Santoro di Tursi, di quattro anni prima, offre una spiegazione di questa curiosa quanto strana circostanza, che a sua volta rimanda a quarant’anni prima (intorno al 1753?): il 26 luglio del 1792, “i canonici don Pasquale Pezzolla, di anni 62, e don Filippo Romano, di anni 50, e mastro Vincenzo Cantisano, di anni 54, dichiarano che “durante l’incendio che devastò circa quarant’anni prima il ‘quarto nuovo’ del palazzo (con tutta probabilità nella Rabatana, N.d.A.) della famiglia Donnaperna di Tursi, andarono bruciate oltre al mobilio e alle suppellettili ‘anche le scritture più importanti di detta famiglia e molta quantità di oro, vesti ed argento lavorato’”. In quegli anni volgeva al tramonto il ducato di Tursi dei Doria genovesi e con esso si accentuava il rimescolamento dei reali poteri delle grandi famiglie locali, che sarà sancita dalla dominazione francese e dalla ritrovata competizione tra le classi sociali (ci furono anche attentati ai Donnaperna, ci dice Bruno R.). Alla metà circa del secolo, ogni nucleo familiare doveva elencare ai fini fiscali tutte le proprietà, le ricchezze e le entrate possedute da ciascun componente, per la compilazione di una dettagliata Relazione sulle reali condizioni che il re di Napoli Carlo di Borbone commissionò a Bernardo Tanucci, suo Consigliere di Stato il quale incaricò Don Rodrigo Maria Gaudioso, avvocato fiscale e segretario della Regia Udienza di Basilicata, al fine di ottenere il cosiddetto Catasto onciario della regione. In pratica, ogni singola amministrazione locale doveva depositare il documento ufficiale, e quella di Tursi lo fece nel 1753, indicando “posizione, abitanti, produzione, giurisdizione, amministrazione, introiti e tasse”. Inoltre, alla fine del secolo XVIII, si prospettò all’orizzonte l’occupazione francese di Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, effettiva nel decennio successivo, che causò notevoli cambiamenti (in primis la legge 2 agosto 1806 sulla Abolizione della feudalità nel Regno di Napoli).
Tralasciamo la variazione nei secoli dello stemma dei Donnaperna (al primo piano dell’abitazione al lato della chiesa di Santa Maria Maggiore in Rabatana; a Caprarico; nella tenuta in località Pantoni di Sole; a Pomarico, eccetera), questione che avevo richiamato in un articolo del 2006[6], e la sua ulteriore evoluzione, correttamente posta dallo studioso Antonio Fotia[7], perché “l’incertezza circa l’attribuzione o il riconoscimento di uno stemma gentilizio risiede nel fatto che lo stesso non è immutabile nel tempo. Può essere suscettibile di aggiunte, come avviene quando un casato entra in contatto con altri casati o eredita feudi o titoli. In altri casi, si adotta un nuovo stemma, come potrebbe essere quello del 1801, che si distacca in modo netto dalla tradizione di famiglia per interpretare una nuova realtà, aderente ai tempi mutati, a voler quasi significare e manifestare che si è affievolito l’atteggiamento feudale medioevale…”. Mi domando, però, se questo possa essere spinto fino al limite massimo del disconoscimento della propria tradizione e storia. Inoltre, rinviamo pure a un altro futuro intervento l’analisi dello stemma dei Panevino (intatto sull’arco di accesso al palazzo in via Vittorio Emanuele di Tursi, ma anche all’interno della chiesa di Nova Siri), di certo il più misterioso nella sua quasi trasparenza e il più pregno di fervore religioso nella plastica rappresentazione visiva.
Soffermiamoci, invece, sull’arme dei Brancalasso, sicuramente il più narrativo e complicato tra quei rari blasoni ancora ammirabili nella città della Rabatana, della Diocesi e di Pierro, ma Tursi è anche il noto paese delle arance importate dagli arabi, unico centro in Lucania, oltre che della produzione altalenante del meraviglioso arancio “staccio”. Due magnifici stemmi lapidei, nella loro essenza strutturale, si trovano sui portoni del palazzo del Barone Brancalasso, adiacente la piazza del Plebiscito, nel centro storico, ma a un occhio attento e allenato non sfugge la sua primigenia e semplice forma base, anch’essa scolpita, nel lato sinistro del primo altare a sinistra dell’ingresso laterale della chiesa di Santa Maria Maggiore, nell’antica Rabatana. Forme simili un tempo erano sparse nei diversi palazzi di campagna, come nelle loro masserie del vasto territorio tursitano. Che un alone di mistero circondi la storia di questa forte presenza familiare a Tursi, è un fatto quasi universalmente noto, tanto da dare adito a una ricca aneddotica, a varie leggende e racconti fantastici, fino allo sconfinamento nell’esoterico e nel soprannaturale, tuttora riverberati per i soliti e immancabili creduloni e a fini “turistici” (come se questo fosse un’attenuante!). Si pensi alla leggendaria narrazione della costruzione del palazzo, spuntato come un fungo in tre notti (sic!), in realtà fabbricato in un processo di avanzamento a blocchi durato decenni, contro la volontà dei vicini abitanti del quartiere, che mal digerivano un mega edificio frontale, utilizzando allo scopo maestranze quasi tutte della Calabria; oppure si vociferava l’esistenza di una stanza segreta o sempre chiusa, come se fosse consentito a chicchessia di visitare il riservatissimo palazzo a suo piacimento; e, infine, la inspiegabile (e perciò luciferina) presenza delle tre statue (solo quella centrale a figura intera), sulla facciata prospiciente la piazza (poi detta del Plebiscito), di assai difficile interpretazione per gli ordinari osservatori compaesani, i quali hanno sempre ignorato praticamente tutto della genealogia dei Brancalasso.
Non che tutto sia stato trasparente o limpidissimo nelle lunghe e gloriose vicende brancalassiane, ma possiamo risalire con relativa sicurezza alla prima fonte, ovvero alle origini di tanta incertezza o segreto che è attribuibile alla stessa famiglia, iniziando perfino e già dalla ideazione (solo?) misticheggiante della forma potente dello stemma autorizzato dal Sovrano. In tale direzione, è persuasivo il contenuto del manoscritto Fedel memoria degli Uomini Illustri, Parenti, Stabili, Urbani e Rurali, Jus, Doti, Ragioni, Servitù, Prelazioni, Cappellanie, Benefici e sue Rendite, Notizie antiche appartenenti alla gentilizia famiglia BRANCALASSO, che ora si rappresenta dalli fratelli, Dottor Don Tommaso, Dottori Canonici della Cattedrale: Don Filippo, Abate Don Carlo e Don Nicolò Brancalasso, registrato nel 1744 (poi esteso dal 1443 al 1797). Per una fortunata circostanza, il testo originale con la trascrizione mi è stato donato dalla studiosa Ambra Piccirillo, che per parecchi anni lo ha esaminato e che tuttora lo custodisce con il coniuge, il medico Ciriaco Sciarrillo Brancalassi, nelle Marche, essendo tra i discendenti ultimi della nobile famiglia, la quale annovera eredi anche a Tursi.
Nella parte iniziale della storia della famiglia, i fratelli Brancalasso, tutti dottori, ovvero l’avvocato Don Tommaso e i canonici della Cattedrale: Don Filippo, l’Abate Don Carlo e Don Nicolò, scrivono dettagliatamente la problematica dello stemma, posta dal nipote Don Camillo Brancalasso (1615 circa-1673), giovane studente, poi avvocato (nel 1638?), allo zio Don Giulio/Gio Antonio Brancalasso. In tale scambio epistolario, chiarito che “G. A. Brancalassi ave eseguita la detta lettera di propria mano. Dichiarazione dell’impresa nostra…”, si afferma sostanzialmente, ma in modo inequivocabile, che il mistero è destinato a durare, perché il segreto non può essere rivelato se non a voce, tramandandoselo di generazione in generazione, e anche perché tutto quello che i Brancalasso sono stati in grado di realizzare con la loro impresa ha qualcosa di portentoso, quasi fosse un disegno di derivazione divina, perciò il significato autentico dello stemma di famiglia va mantenuto riservato e mai rivelato ad alcuno anche in avvenire, se si vuole che la mano di Dio continui a favorire la (loro) impresa. Ma il segreto rimarrà tale solo a chi, come il nipote, non conosce (ancora) le divine e sacre scritture, come qualche raffinato teologo predicatore religioso sarà in grado di chiarire subito. Infatti, è scritto che “vi dirò altre cose che non è lecito scrivere qui, e ne in altra parte, ma solamente a bocca si deve comunicare e così tenersi per tradizione da padri in Figli, e da Figli in nipoti usque in perpetuum…; hor giudicate voi hora quanto dovete stimare questa divina, e celestiale impresa, che ci viene puramente dall’onnipotente mano d’Iddio: questo scritto, ed ogni altra cosa che io vi ho detto intorno il segreto di questa Impresa, tenghiatelo segreto e non communichiate con persona alcuna la significazione del suggello senza dichiarare a persona alcuna la significazione dell’arme, acciò non possono dire per l’avvenire. Intanto queste dicerie, siate dunque savio, e segreto, se desiderate che le nostre cose vi secondano bene…; La significazione di questa impresa voi non la saprete, perché non siete esercitato nelle divine, e sagrate lettere, ma mostratela a qualche Gran Teologo predicatore religioso che ve la dichiarerà puntualmente, che io per non tener hora tempo. Gio: Antonio Brancalassi”.
Dal citato manoscritto, riportiamo integralmente la parte relativa allo stemma. <<Nel libro del medesimo stampate si veggono le arme di Spagna, quella di questa città e quelle della propria Famiglia inventate da se come al presente si vede nel suggello, argenti ed anelli, portoni ed in altri ornamenti di casa; ma curioso il suo nipote allora giovane il Don Camillo Brancalassi scrisse al detto suo zio che si fosse compiaciuto a significare li geroglifici di detta impresa veggendola tutta intricata, che realmente anche dalla presente famiglia e da tutti si ammira la diversità di detti geroglifici e così li scrisse una lettera per saperne il significato ma il Dottor Don Giulio, che come savio nelle scritture propriamente la inventò e ne fè la risposta, che originale si conserva e del tenor seguente di propria mano:
Per non tener hora tempo non posso darvi quella soddisfazione, ma ve la darò con l’altro ordinario ampiamente, tra tanto tenghiate questa impresa a cuore e preghiate Iddio che sia in lode, servizio e gloria del suo santissimo nome, così per noi, come per nostri descendenti; et quando Iddio piaccia abboccarci presentialmente vi dirò altre cose che non è lecito scrivere qui, e ne in altra parte, ma solamente a bocca si deve comunicare e così tenersi per tradizione da padri in Figli, e da Figli in nipoti usque in perpetuum, ringraziate come dico Iddio di quanto fa ,e preghiatelo che vi dia la sua Grazia, acciò possiate fare la sua Divina volontà. Io per me non mi servirei di altra Impresa ancora che il Re di Spagna mi concedesse per speciale privileggio le sue regali arme, e così l’osservarei se sapesse morirne: hor giudicate voi hora quanto dovete stimare questa divina, e celestiale impresa, che ci viene puramente dall’onnipotente mano d’Iddio: questo scritto, ed ogni altra cosa che io vi ho detto intorno il segreto di questa Impresa, tenghiatelo segreto e non communichiate con persona alcuna la significazione del suggello senza dichiarare a persona alcuna la significazione dell’arme, acciò non possono dire per l’avvenire. Intanto queste dicerie, siate dunque savio, e segreto, se desiderate che le nostre cose vi secondano bene. G. A. Brancalassi ave eseguita la detta lettera di propria mano. Dichiarazione dell’impresa nostra –
Il scudo ha da esser in forma di cuore, ed alla punta del cuore stia la morte con due ossa picciole.
Il campo dello scudo ha da esser verde tutto. Sono nove stelle tre per ogni braccio. I tre bracci hanno da parer che son ’ armati. Li tre croci son di ramo di nocciuolo. La scala attraversata dalli dardi ha da tenere dodici gradi. Il leone ha da esser non niegro, ma del suo proprio, e natural colore, che tengha le branche solamente appoggiate alla scala. Quel lacerto è ramarro, o come noi chiamiamo salabrone e ha da essere di colore verde, che è naturale di questa specie. L’iscrizione all’intorno dello scudo dice così: Ipse conteret caput tuum. Genes.3 Tu confregisti capita draconis, dedisti eum escam populis Ethiopum Psalm 73. Ecce vicit leo de tribu Iuda, radix David aperire librum, et soluere signacula septem. Apocalips.Cap.5. Ma perché non è possibile, che nel sigillo possano scolpirsi tante lettere, basterà solamente, che si ponghino queste sole: Ipse conteret caput tuum perché le altre lettere si possano porre nelli portieri, o in altra cosa grande. La significazione di questa impresa voi non la saprete, perché non siete esercitato nelle divine, e sagrate lettere, ma mostratela a qualche Gran Teologo predicatore religioso che ve la dichiarerà puntualmente, che io per non tener hora tempo. Gio: Antonio Brancalassi
Alla di lui risposta restò appieno soprafatto il giovane nipote Don Camillo, e così cominciò da queste sante insinuazioni a scolpir l’impresa nei suoi suggelli ed argenti, che dalla Famiglia Rappresentante si conservano e così per la Dio grazia s’osserverà dagli successori essendo la significazione di detta impresa, tutta celestiale e divina fatta da quell’eroe e buon huomo di Giulio, e si spera che per l’intelligenza del medesimo habbia da durare la detta Famiglia, sempre remissiva al Divino volere. Quindi se non possano le tradizioni vere, e fideli a far conoscere in qual grado di merito, di perfezione e di dottrina sia giunto il sempre memorabile Dottor Don Giulio, parleranno in perpetuo le sue opere stampate piene di erudizione, politica, e santità e così ognuno che rappresenterà la Famiglia si conservino tutte le obbligazioni, e per memoria del medesimo sta il suo ritratto col libro nelle mani, appeso nella sala al primo luogho e per onore della Famiglia.>>
Quello dei grandi Brancalasso è un arcano fatto di profonde ambiguità e dichiarati segreti dei quali non sapremo forse mai più il senso intimo e vero dell’enigma, ma, trattandosi dell’arme, potrebbe avere ragione Jean Cocteau (1889-1963): il mistero non esiste che nelle cose precise.
Salvatore Verde © Diritti riservati
[1] Usato in araldica, il termine indica “il complesso di determinate figure, effigiate e disposte secondo certe norme, che costituiscono il contrassegno stabile di persone, famiglie ed enti, portate e usate per speciale autorizzazione” (Dizionario Treccani).
[2] Nigro A., Memoria topografica istorica sulla città di Tursi e sull’antica Pandosia di Eraclea oggi Anglona, Tip. Miranda, Napoli, 1851, pag. 19; II Edizione Archivia, Rotondella, 2009 (MT)
[3] Bruno R., I Donnaperna, Casa Editrice Arti Grafiche Liantonio, Matera, 1986, pp.16 e 27.
[4] D’Angella R., Ricerca genealogica della famiglia Panevino per John Giorno, 1550-1936, documentazione inedita, 2009.
[5] D’Angella R., Ricerca genealogica della famiglia Panevino per John Giorno, 1550-1936, cit.
[6] Verde S., Lo stemma nobiliare dei Donnaperna, Tursitani.com, 23 settembre 2006.
[7] Fotia A., Sullo stemma dei Donnaperna a Tursi, Tursitani.it, 25 settembre 2017.