Pari opportunità non implica uguaglianza (soltanto) nelle retribuzioni
Da quando sono nata sento parlare di pari opportunità, uguaglianza, diritti delle donne, da una parte, e ingiustizie, disparità di trattamento, “sfruttamento” e molto altro, dall’altra. Ogni giorno c’è almeno una donna che combatte, si arrabbia, si rattrista, e quasi sempre ha ragione. Anzi, togliamo il “quasi”.
L’altro ieri, guardandomi allo specchio, dopo quasi otto anni di vita divisa tra lavoro e l’esser donna, dove il primo non include il secondo e il secondo, da decenni ormai, include anche il primo, mi sono chiesta: dove stiamo andando? Cosa significa essere donna? C’è ancora qualcuna che è consapevole di ciò che è?
La donna non è un uomo e l’uomo non sarà mai una donna: l’uomo può “fare” la donna e la donna può “fare” l’uomo, ma i due mondi non sono equivalenti: fare non significa essere.
Questo, il mondo, lo ha compreso? O siamo tutti alla disperata, vana, ricerca di un’uguaglianza sostanziale? Questa continua e vana ricerca di qualcosa di impossibile è ciò che deprime, opprime, rattrista, più della non uguaglianza in sé?
Il punto di partenza è il principio fondamentale che tutti conosciamo: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali”.
Eppure siamo tutti consapevole che ognuno di noi è diverso dall’altro, non esistono due esseri che siano uguali in tutti questi aspetti: per sesso, aspetto fisico, modo di pensare, parlare, pregare etc. E anche quando avremo davanti due persone simili non saranno mai uguali. Ciascuno di questi elementi ha all’interno una tale varietà di caratteristiche, declinazioni, aspetti, processi, da determinare combinazioni infinite e infinite persone diverse. Pensiamo alla cosa più percettibile per molti: è difficile trovare qualcuno che la pensi esattamente come noi.
Anche quando ci sembra di averla trovata, nel corso di tutta una vita ci sarà almeno una cosa che farà o penserà o dirà diversamente da noi, e non parlo di cose necessariamente eclatanti: uno preferisce il salato l’altro il dolce, uno ama il calcio l’altro no. Non solo nei confronti dell’altro sesso ma anche tra amiche, amici, compagni dello stesso sesso. Eppure, non ricerchiamo l’uguaglianza a tutti i costi e quand’anche lo facciamo finiamo per essere “incompresi”. Un paradosso. La ricerca dell’uguaglianza genera incomprensioni.
L’intera popolazione è formata da esseri umani la cui identità è unica nel suo genere. L’uguaglianza di cui si parla, quindi, è riferita all’uguaglianza nei diritti, nelle opportunità, nelle possibilità che nulla a che fare con l’uguaglianza sostanziale degli uomini e da cui, perciò, non dipende. Non abbiamo uguali diritti perché siamo uguali: abbiamo uguali diritti perché siamo “egualmente esseri umani”. Questa è l’essenza della nostra civiltà. Credo.
Il Decreto legislativo 11/04/2006 n° 198 (G.U. 31/05/2006) è conosciuto come “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna e individua, tra le altre cose, le varie forme di discriminazione e pone il divieto a qualsiasi tipo di discriminazione: nell’accesso al lavoro; nella retribuzione; nelle prestazioni lavorative e nella carriera; nell’accesso alle prestazioni previdenziali; nell’accesso agli impieghi pubblici; nell’arruolamento nelle forze armate e nei corpi speciali, nel corpo della Guardia di Finanza, nelle carriere militari.
Tutti devono avere pari diritti in materia di accesso all’occupazione, di formazione professionale, di condizioni di lavoro e, in ampia misura, in materia di protezione sociale. L’ennesima vittoria all’interno di un percorso durato secoli. Secoli che, d’altronde, hanno cambiato la percezione che noi donne abbiamo di noi stesse: ci siamo evolute, emancipate, istruite, rese indipendenti, ma cosa è successo alla nostra femminilità?
Essere donna è qualcosa di meraviglioso, gli uomini lo sanno, eppure leggendo libri, osservando dipinti, guardando film e documentari, è come se ci mancasse qualcosa: riflettendoci attentamente, avverto una sorta di dualismo tra l’io fuori casa, a lavoro, e l’io dentro casa. Ci sono aspetti della vita di una donna dei tempi andati che sembra mi manchino: abbiamo rinunciato a un pezzo per averne un altro. Sarà solo (neo) romanticismo il mio?
Le donne hanno combattuto, e nel nostro piccolo continuiamo giornalmente a combattere, per i diritti sul lavoro, sull’istruzione, nell’ambiente domestico: vogliamo fare ciò che gli uomini hanno sempre fatto e vogliamo che loro facciano ciò che noi abbiamo sempre fatto per tendere alla tanto sospirata uguaglianza. Nel fare questo, ognuno ha dovuto rinunciare ad una parte per prenderne un’altra (essendo noi un insieme finito) e il punto di equilibrio non è scambiarsi i ruoli, perché continueremmo ad avere due identità diverse, ma fare entrambi tutto.
E’ possibile? E’ possibile che tutti facciamo tutto e che lo facciamo allo stesso modo? (perché poi iniziamo a pretendere anche questo) L’uomo potrà mai prendersi cura della casa come noi donne? La donna con figli potrà mai dare quella disponibilità a fare straordinari che l’uomo può dare? E’ proprio questo quello che vogliamo? Il rapporto di coppia, l’attrazione, riesce a stare al tempo di queste evoluzioni?
Noi donne, fra di noi, non siamo tutte uguali: c’è chi vuole studiare chi no, chi vuole lavorare chi no, chi vuole sposarsi chi no, chi vuole avere dei figli chi no, chi vuole essere capo chi no e c’è chi vuole fare tutto, o niente. Ognuna sceglie cosa essere e, dopo averlo fatto, sceglie cosa fare. Questo implica che per ognuna il punto di equilibrio nei ruoli è diverso ed è, dovrebbe essere, un sacrosanto diritto, eppure non sembra esistere, o meglio, non è “pubblicizzato”.
L’intera struttura normativa si basa sull’uguaglianza intesa come opportunità: rimuove le barriere per sancire il diritto al lavoro, prevedendo il libero accesso e punendo le discriminazioni; rimuove le discriminazioni salariali, prevedendo il libero accesso alle cariche, alla carriera, la parità di trattamento; rimuove le discriminazioni previdenziali a sfavore degli uomini, prevedendo l’accesso alle prestazioni. La normativa fa molto altro anche, eppure sembra che tutto tenda a uno specifico equilibrio: a metà.
La strumentalizzazione mediatica, il bombardamento dell’informazione al riguardo, hanno ingenerato nelle donne una necessità, un bisogno, una rivendicazione che mira ad un equilibrio in uno specifico punto, non delle opportunità ma del punto di arrivo: se tutti facciamo tutto siamo uguali.
Ma l’uguaglianza non è nell’essere uguali o nel fare cose uguali: l’uguaglianza è nell’avere pari opportunità, nell’avere il diritto di fare, il che implica anche il diritto di non fare.
Mi chiedo se noi donne, oggi, ci facciamo questa domanda: vogliamo davvero giungere al punto in cui l’uomo e la donna fanno tutto in parti uguali?
Alla luce dei secoli trascorsi, della storia della donna, siamo in grado di accettare e comprendere che ci siano donne che non vogliono fare tutto? Quali tutele hanno? Combatteremmo per loro? D’altronde, non sarebbe un passo indietro ma, anzi, una nuova visione di una vera uguaglianza: siamo tutti diversi e ognuno ha dei diritti. E i diritti di ognuno hanno il solo limite di finire dove iniziano quelli dell’altro. Questo è l’equilibrio.
Una donna deve guadagnare quanto un uomo se fa ciò che fa esattamente l’uomo, il che purtroppo implica un orario come un uomo, una rigidità nei permessi come un uomo, una disponibilità telefonica come un uomo, etc. Siamo proprio convinte di volere tutto questo? Non vorremmo, forse, che fossero sanciti anche altri diritti? Diritto di essere donna prevedendo una specifica normativa lavorativa per le donne, con eventuale “opzione per l’ordinario regime”?
Se da un lato guadagnassimo meno e dall’altro avessimo il tempo per essere noi stesse, per coltivare e conservare quella femminilità che sempre più scompare, non lo vorremmo? Non è un diritto scegliere cosa essere?
Non si può avere tutto, neanche in un mondo perfetto: se avessero risorse illimitate, soldi illimitati, tempo illimitato, l’uomo e la donna, esattamente a metà, avrebbero tutto e farebbero tutto in egual modo ma non tutti lo vorrebbero.
E mi ripeto: la donna non è un uomo e l’uomo non sarà mai una donna: l’uomo può “fare” la donna e la donna può “fare” l’uomo ma i due mondi non sono equivalenti: fare non significa essere.
Verdiana C. Verde