Solo la casualità, unitamente alla pandemia, può spiegare e far circoscrivere la mia distrazione all’origine della mancata lettura di un piccolo grande dono, che ritempra, stimola e agita l’anima inquieta e sensibile, soprattutto di questi tempi. Potevamo nascere muti (Se di silenzio doveva essere il nostro altrove) di Giuseppe La Salandra, “è una raccolta di poesie, divisa in tre momenti, con tema dominante il silenzio (potevamo nascere muti); i piccoli momenti di gioia (il fiore solitario) e quelli di dolore, preziosi anche quelli (le pietre dure); l’amore (le mie e le tue lune), la vita”.
Pubblicato direttamente dall’autore, dopo un’attesa condivisa anche con alcuni amici che l’hanno potuto apprezzare in anteprima ed esprimere sintetici commenti (A “Prefazione”), l’insieme delle liriche (73 pagine) segna il suo debutto ufficiale, ma La Salandra, sessantaseienne giovanile, colto e rigoroso, prima o poi supererà i suoi comprensibili dubbi e la sua naturale ritrosia e scopriremo allora che nel privato è, per sua ammissione, uno scrittore di racconti più o meno brevi (almeno di una trilogia) e di altre diverse raccolte di liriche (tra il 2009 e il 2017).
Potevamo nascere muti si avvale del contributo artistico, visivo e critico, di Samantha Veronica Dibitetto, sia in copertina che nelle conclusioni, quasi uno affettuoso stimolo tra postfazione e recensione (Le Poesie Scritte e le Poesie Dipinte). Le poesie pressoché tutte rigorosamente datate, molte perfino con l’annotazione oraria, sono comprese in un arco temporale di circa un trentennio, dal 1980 al 2009, ovvero dalla giovinezza alla piena maturità, ma seguono un evolutivo intreccio interiore di inappagabile e sorprendente coerenza, impegno e rigore, tanto da disvelare l’autenticità di un poeta che rifugge dal facile modernismo, ma anche dal semplicismo estetico e da contorsionismi intellettualistici, alla fine rivelandoci una sua dimensione a noi sconosciuta e di accattivante tenerezza, struggimento e pacatezza.
Talvolta sembra di avvertire echi di Pavese, con una sofferta rielaborazione, a tratti disarmante, emergente perfino dalla mancanza dei titoli (rare le eccezioni) e della punteggiatura, tranne il punto. E anche i pochi versi finali in rima, della sezione Ghost track, si caricano di una amara ironia palese. Nel suo incedere poetico troviamo, esemplarmente dominanti, la rassegnazione di dover crescere e le amicizie, l’amore con i tormenti e la trasfigurazione erotica, gli anni ribelli e la famiglia, la carrellata di ricordi e la sedimentazione delle esperienze, l’inesorabile scorrere del tempo (L’unica cosa che si muove è il tempo che invecchia i corpi) e la morte che aggiunge pensieri togliendo parole (A N. R. 27.7.2005). E io che non ho niente da dire / In questo mare di indifferenze / In cui allaghiamo di solitudini / Aspetto che il tempo mi porti / Dove il silenzio ha una ragione, sono versi tra i tanti che, come anche quelli del titolo, segnano, arrivano e restano.
Insomma, quello di Peppino, così per gli amici, è un bisogno di dialogo intenso, necessario e ininterrotto con se stesso, che spinge noi conoscenti e lettori a interrogarci sul senso etico e profondo della libertà e identità, nel convincimento che i processi di maturazione interiore non possono prescindere dalla inevitabile solitudine, più o meno rumorosa.
Salvatore Verde
TURSI – Avvocato e serio professionista, Giudice di pace a Benevento, persona di proverbiale mitezza, oltre che di raffinata intelligenza, cultura e garbo, Giuseppe La Salandra (Tursi, 1955) si fa apprezzare anche come attore e interprete per l’affabilità, il talento e la sicurezza sul palcoscenico. In particolare, ama la recitazione e il teatro, soprattutto di Luigi Pirandello, oltre che gli spettacoli e la scrittura di Alessandro Baricco, nonché il teatro-denuncia di Marco Paolini, e con una predilezione per il grande poeta tursitano Albino Pierro. Da poco tempo si è trasferito con la famiglia a Policoro. (s.v.)